Oggi, le ragioni razionali per avere figli sembrano essere sempre meno, in particolare perché poi dovrebbero crescere e vivere in questo mondo ormai gravemente compromesso dal punto di vista climatico, economico, politico e sociale. Premettendo che, pur in condizioni serene, a mio avviso avere figli non è quasi mai una scelta totalmente lucida, ma mossa piuttosto da emozioni profonde e anche da una non sottovalutabile casualità, è lecito chiedersi perché questo desiderio però permanga anche in questo momento storico. Mi sono chiesta io stessa perché abbia deciso di avere un figlio e a questo proposito mi piacerebbe evidenziare soprattutto il significato “politico” che può avere questa scelta, perché esiste e secondo me è connesso alla forza della speranza, che può consistere in un’importante assunzione di responsabilità e anche in una forma di “resistenza”.
In Italia, il crescente calo demografico – che ha radici profonde e ha iniziato a manifestarsi già molti anni fa – ha intercettato la paura dei millennial e della Gen Z di mettere al mondo figli a causa della loro condizione economica e sociale ma anche di un futuro imminente che appare per certi aspetti catastrofico. Parlare di speranza potrebbe quindi sembrare nel migliore dei casi un’utopia e nel peggiore fuori luogo, ingenuo, persino ridicolo, ma la sua etimologia racchiude il significato che invece vorrei invitare a cogliere: “tendere verso una meta”.
Un illustre sostenitore di questa visione fu Ernst Bloch, filosofo tedesco di origini ebree, marxista, collega e amico di Theodor Adorno. Bloch fuggì negli Stati Uniti per sottrarsi alle persecuzioni naziste e nel bel mezzo del disastro che minacciava la sua esistenza e quella del suo popolo elaborò quello che viene chiamato “principio di speranza”. “L’importante è imparare a sperare”, diceva Bloch, sostenendo che speranza e utopia fossero elementi essenziali dell’agire e del pensare umano. “Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla”, scrive nella sua importante opera Il principio speranza, “L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”.
“Scopo” e “appartenenza” sono due concetti che possono essere male interpretati quando si parla di figli. Dal mio punto di vista non ho mai ritenuto che il fine ultimo dell’umanità – diciamo pure delle donne – si esaurisse nella procreazione. Diventare genitore è per forza di cose un’esperienza molto più complessa della riproduzione. Assumersi l’impegno di crescere un figlio che diventi un cittadino responsabile e consapevole, invogliandolo a scoprire le ragioni delle battaglie che a nostra volta si è deciso di combattere e le consapevolezze che si sono faticosamente acquisite negli anni, pur rispettando la sua unicità e il suo percorso personale, fornendogli gli strumenti culturali per autodeterminarsi, è un compito di tutt’altra portata. Ed è su questa missione concreta che si fonda per quanto mi riguarda la speranza di cui parlo. Bloch, infatti, considerava la speranza come un aspetto dello sviluppo dell’essere – che secondo lui non è mai definibile nella sua immediata staticità e cristallizzazione. Il vero, vitale essere è il “non-essere-ancora” ben rappresentato dalla speranza intesa come concreta forza di voler costruire la realtà (per forza di cose sempre “futura”). I figli allora possono essere la quintessenza di questa visione.
Il senso di frustrazione e spaesamento che spesso viviamo oggi è però dovuto anche al “sovraccarico informativo” dato dalla massiccia quantità di informazioni che caratterizza la nostra epoca. Queste ci hanno indubbiamente favorito nel costruire conoscenze poliedriche, ma hanno anche cagionato un effetto sotto certi aspetti inaspettato: in molti casi ci hanno confusi, bloccando la nostra capacità decisionale. Iniziare a domandarsi in che modo si vorrebbe vivere, sforzandosi a sviluppare una chiara visione, concreta, del futuro che vorremmo, si potrebbe riuscire a mettere insieme, un passo per volta, gli strumenti per realizzarlo.
Sono consapevole del fatto che questo lungo discorso stia omettendo un aspetto fondamentale, in particolar modo per la realtà italiana: il problema economico, che si misura anche nell’assenza di un supporto adeguato alle famiglie, in cui di solito si finisce per scaricare tutto il lavoro di cura sulle donne. Tra chi desidera essere genitore, nonostante tutto, ci sono infatti coloro che non sentono di poterlo fare perché non sono in grado di affrontare le spese che comporta. Salari non adeguati al caro vita, contratti di lavoro precari, lavori in nero, mancanza di lavoro, inadeguate politiche di sostegno al reddito: tutto questo disincentiva le giovani generazioni a fare figli e spaventa giustamente le donne, consapevoli che l’enorme lavoro ricadrà quasi esclusivamente sulle loro spalle.
Proprio per sottolineare che invocare un “principio di speranza” non corrisponde a uno scollamento dalla realtà e dalle difficoltà che essa comporta, vorrei riportare la mia esperienza. Quando ho ricominciato a lavorare, dopo i cinque mesi di maternità obbligatoria ho pianto per una settimana. Lo so che in un’epoca estremamente dura per quanto riguarda la ricerca del lavoro sembra irriverente, ma io non volevo ricominciare, perché mio figlio aveva solo tre mesi e mezzo e mi sembrava che qualcuno mi avesse strappato una parte di me. Poi sono andata e mi sono sentita triste perché gli ero lontana, ma anche di nuovo “definita” come persona, un po’ più libera. L’ispettorato nazionale del lavoro ha effettuato uno studio dal quale emerge che nel 2020 il 77% dei neogenitori che hanno lasciato il lavoro sono donne. Le lavoratrici madri sono una minoranza nel mondo del lavoro, e al Sud sono vere e proprie mosche bianche. Conciliare un’occupazione con il lavoro di cura di un figlio è molto difficile, così come lo è vivere in un Paese che organizza gli Stati generali della natalità, che si rammarica del sempre più basso numero di nascite, che teme che la sua popolazione diminuirà del 50% tra 100 anni, ma che nei fatti continua a non fare nulla per sostenere chi desidera avere figli.
Tutto questo è terribile, ma le cose non devono essere per forza così, possono cambiare se ci si impegna affinché ciò accada, e io, nel mio piccolo, mi voglio assumere questa responsabilità, informandomi e informando. Essere disperati spesso equivale ad arrendersi a un futuro già scritto, ereditato dalle irresponsabili generazioni del passato. La speranza, invece, è un atto di ribellione, e per certi versi persino di rabbia. Non possiamo accettare passivamente il futuro che ci è stato dato, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per cambiarlo, e tra gli strumenti che abbiamo a disposizione può annoverarsi anche il crescere generazioni migliori di quelle passate, compresa la nostra.