Non è vero che non si può più dire niente, è che il mondo evolve e la vostra satira è invecchiata - THE VISION
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Può risultare strano per chi non guarda più la televisione, eppure i programmi che battono tutti i record di ascolti sono sempre gli stessi: le fiction della Rai, C’è posta per te di Maria De Filippi. Nell’era delle piattaforme di streaming che sbucano fuori come funghi, la televisione dovrebbe per forza di cose essere prossima all’estinzione, ma il giorno del giudizio per il media più rivoluzionario del Novecento sembra ancora abbastanza lontano. Basta controllare i dati Auditel per rendersene conto e, sebbene siano calati rispetto a una decina di anni fa, si tratta di numeri ancora stratosferici come appunto i sei milioni di spettatori fissi per qualsiasi fiction Rai – dal Commissario Ricciardi a Doc nelle tue mani, senza scordare ovviamente il filone ecumenico dei vari preti in bicicletta –, con vette di nove milioni raggiunte nel 2020 con Montalbano, e di format risalenti a vent’anni fa come quelli targati Mediaset.

Maria De Filippi

La televisione, intesa come mezzo di comunicazione che settant’anni fa ha unito l’Italia sotto molti aspetti e che gode ancora di infiniti privilegi come quelli di potersi dotare di redazioni, di tanti autori, di grandi budget, di un pubblico generalista, non è morta, nonostante la “minaccia” di internet. Non è morta, ma non se la passa nemmeno così bene per mancanza di lungimiranza, dal momento che sembra essersi arroccata in uno stato di auto-preservazione fatto di contenuti quasi sempre identici a loro stessi, privi di qualsiasi contatto con l’altra parte del mondo dei media, ossia il web – se non per rubare qualche tweet o invitare qualche personaggio bislacco che proviene da lì. Ma soprattutto, la televisione odierna per sopravvivere ha smesso quasi del tutto di coinvolgere nei suoi palinsesti le generazioni più giovani, cosa che probabilmente le costerà davvero l’estinzione; o meglio, non le include in alcun tipo di approfondimento che vada al di là del semplice intrattenimento, spesso anche piuttosto demenziale, come nel caso di reality show e talent. Un fenomeno che, per forza di cose, fa sì che vecchi e nuovi media non si ritrovino in un terreno comune di confronto quasi da nessuna parte, creando un cortocircuito di comunicazione e di percezione della realtà: da un lato Luciana Littizzetto che in un programma che totalizza 3,5 milioni di ascolti fa un pezzo satirico sul “Non si può più dire niente”, ormai cavallo di battaglia di una retorica sterile basata su un’analisi superficiale e vecchia dei cambiamenti sociali in atto che passano perlopiù attraverso la rete – mentre Vittorio Feltri pochi giorni prima inneggiava, con un’ironia malposta in grado di capire solo lui, a Hitler in prima serata, giusto per smentire questa convinzione – dall’altro le nuove generazioni che si trincerano in community online sempre più ristrette e specifiche.

Luciana Littizzetto
Vittorio Feltri

Se si pensa ai nomi “giovani” della tv con posizioni di rilievo vengono in mente solo personaggi che ormai hanno tutti superato i quarant’anni, da Alessandro Cattelan a Costantino della Gherardesca, passando per Filippo Bisciglia, Bianca Guaccero, Ilary Blasi, Silvia Toffanin, Michelle Hunziker, Camila Raznovich, alcuni dei quali protagonisti di reti “young” che sono ormai quasi del tutto tramontate come MTV. Non sembra esserci spazio per un presentatore o una presentatrice appartenente alla Generazione Y, men che meno alla Z, così come non esistono talk show politici o programmi di approfondimento di qualsiasi tipo in cui vengano coinvolti attivamente ospiti giovani che possano dare un contributo al dibattito, anche solo attraverso la propria testimonianza, senza per forza essere chiamati in causa come esempio di massima autorità ma solo in qualità di interlocutori alla pari. Ci si lamenta che ai ragazzi non freghi nulla di politica – l’affermazione “Io di politica non ci capisco nulla” pare del resto abbastanza gettonata –, quando poi non esiste concretamente un luogo dove si possa trovare un confronto mediatico e fruibile per tutti con le istituzioni, i giornalisti e gli esperti protagonisti del presente. La rete “pop” della Rai, ossia Rai Due, nel 2020 ha scavallato il confine dell’audience circoscritto a una certa fascia di età puntando su trasmissioni da seconda serata come Una pezza di Lundiniascolti bassi ma molto engagement sui social, unico programma comico fatto da under 40 con però alle spalle un autore storico come Giovanni Benincasa – e, soprattutto, Il Collegio, un docu-reality che ha fatto impazzire gli zoomer

Camila Raznovich
Valerio Lundini, Una pezza di Lundini, 2020, RAI
Alessandro Cattelan, X Factor, Sky

Il Collegio, X Factor, Amici di Maria De Filippi, La pupa e il secchione: queste trasmissioni sono le uniche che coinvolgono adolescenti e ventenni, trattandoli esclusivamente come concorrenti per un gioco, sfruttando il potenziale mediatico di sogni nel cassetto e aspirazioni o, nel peggiore dei casi, usati come cavie per un “esperimento sociale” – definizione che piace molto agli autori tv dal Grande Fratello in poi – a tema leva militare come nel recente programma La Caserma, che punta a replicare il successo de Il Collegio (con ascolti neanche così entusiasmanti, tra l’altro). Qualche piccola eccezione la fanno trasmissioni come Tv Talk, che lascia il microfono in mano agli analisti non per ballare, cantare, ma per esprimere la loro opinione in fatto di televisione o i canali secondari come Rai Storia in cui intervengono anche giovani dottorandi; ma ci sono anche esempi piuttosto fallimentari come quello della trasmissione Generazione giovani, cancellata dopo poche puntate, a riprova del fatto che non è creando una sorta di riserva naturale televisiva e circoscritta per gli adolescenti – il programma andava in onda il sabato mattina alle 10 – che si cattura il loro interesse. Per il resto, lo scenario è sempre strutturato sullo stesso schema, da un lato i grandi con la loro tv, da un lato i giovani con i loro social, nel mezzo un punto di incontro che non prevede confronti e dibattiti di alcun tipo, se non per il brano inedito o per il balletto in gara.

Il Collegio, 2017, RAI

Anche nel Sessantotto – per prendere l’esempio più recente in cui si è verificato questo fenomeno – era presente questo forte sentimento di incompatibilità tra vecchie e nuove generazioni, un naturale senso di scontro che divide i giovani dai più grandi, ma per quanto i ragazzi di quei periodi tumultuosi abbiano creato spazi esclusivamente rivolti ai loro coetanei – le riviste e le radio dove ora lavorano sempre loro, ormai diventati grandi come i loro genitori a cui davano dei ‘vecchi’ – non è paragonabile al livello di distanza che c’è oggi in termini culturali e mediatici. Internet crea ambienti sempre più ristretti che determinano la nascita di un’enorme quantità di camere d’eco: ciascuno di noi si ritaglia sui social uno spazio di intrattenimento e di informazione che comprende solo i suoi interessi, lasciando spesso fuori tutto ciò che viene considerato estraneo, poco interessante – da ciò la nascita delle famose filter bubble di cui si parla da qualche anno e della polarizzazione sempre più forte delle opinioni. Ogni piattaforma online, da Twitch a YouTube passando per TikTok e ora il recente Clubhouse, ha i suoi gruppi chiusi, le sue realtà autonome, i suoi ecosistemi in cui si crea un ambiente confortevole da un lato, pericoloso dall’altro. Se la chiusura genera sicurezza, il rischio è che porti anche a una maggiore rigidità, illudendoci che il mondo sia fatto sostanzialmente solo di ciò che avviene là dentro, mentre nell’universo mediatico della televisione, dove il pubblico generalista è abituato ad altri linguaggi e i temi sono trattati diversamente, spesso anche in modo superficiale e datato, come avviene per esempio quando una conduttrice Rai intervista una donna trans generando in lei non poco disagio, magari accade tutt’altro. Il risultato è che, facendo un piccolo sforzo e provando a esplorare entrambe le realtà, l’unica cosa che ne viene fuori è una gigantesca incomunicabilità che non fa altro che generare distanza e percezioni falsate, come quella appunto più gettonata del momento sul politicamente corretto.

Eppure, non mancano gli esempi nella storia della tv in cui il confronto tra adulti e giovani non era un’utopia ma anzi, un’occasione da sfruttare per fare contenuti di alto livello. Basti pensare a programmi come Match di Alberto Arbasino, in cui era possibile vedere anche un esponente di una nuova corrente culturale a confronto con uno della vecchia, per dirsi a vicenda cosa contestassero delle rispettive generazioni – Susanna Agnelli contro Lidia Ravera, Nanni Moretti contro Mario Monicelli. I tempi sono chiaramente cambiati, gli intellettuali pure, sia giovani che vecchi, ma la funzione della televisione oggi, molto più che cinquant’anni fa, potrebbe essere proprio quella di riempire un vuoto che, a differenza di internet, può colmare attraverso l’uso di mezzi molto potenti come il pubblico generalista, le redazioni, le scenografie: la tv ha un assetto strutturale che vanta una solidità per molti aspetti estranea al web – che ha ovviamente altri pregi. Questo suo vantaggio produttivo, che comprende anche una realtà professionale, dovrebbe essere da stimolo per creare un ponte con i nuovi media, cosa che gioverebbe anche alla televisione stessa, dal momento che, come dimostrano i format più amati dai giovani, in qualche modo ripaga, se non con gli ascolti, con le visualizzazioni e il riscontro su internet. 

Match con Alberto Arbasino, 1977, RAI

Siamo in una fase di grandi cambiamenti, la tecnologia degli ultimi anni ha stravolto la nostra vita e molte delle innovazioni sono ancora in fase di prova. Nessuno sa come sarà il futuro, ma possiamo provare a ridefinire il presente per migliorare ciò che abbiamo, quanto meno per quanto riguarda il dialogo tra giovani e adulti, anche perché non c’è niente di più frustrante di scoprire che persino personaggi del calibro di Corrado Augias non sanno riconoscere una mail di phishing, mentre dall’altra parte magari le nuove generazioni non hanno nemmeno idea di star riproducendo su Twitch con le loro reaction ciò che la Gialappa’s faceva vent’anni fa. “Rottamare” i vecchi ed escludere i giovani sono entrambe strategie miopi, perché, per quanto possa essere banale la retorica del contatto e del confronto, è vero che ciascuna generazione ha da imparare dall’altra, specialmente in un momento di divario tecnologico così forte e in molti casi dannoso. Se la televisione – intesa come spazio pubblico, capace di arrivare a tutti e di servirsi del lavoro collettivo di tante persone, con un ruolo pedagogico oltre che semplice intrattenimento – invece di utilizzare i giovani solo come espediente per trasmissioni di basso livello riuscisse anche a restituire dignità alle generazioni più nuove, forse queste non si rintanerebbero esclusivamente nel web. E i più vecchi, oltre che cogliere un’occasione per poter spiegare cose che ai giovani spesso nemmeno interessano proprio perché nessuno le rende interessanti nonostante li tocchino in prima persona, avrebbero anche molto da imparare.

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