Negli ultimi anni, buona parte della classe politica italiana sembra aver adottato la stessa strategia: concentrarsi su un solo problema alla volta. Che si parli di Ius soli, immigrazione o diritti delle minoranze ci sono sempre “cose più importanti” a cui pensare, come la crisi economica o la disoccupazione. Ci si aspetterebbe, allora, che l’esclusività riservata alle questioni “importanti” stia portando i suoi frutti. Purtroppo, però, non solo non è così – nel 2019 le famiglie italiane in povertà assoluta erano circa 1.7 milioni, e dalla pandemia in poi la situazione non ha potuto che peggiorare – ma la scarsa attenzione storicamente riservata alle fasce più vulnerabili della popolazione si sta ora traducendo in un malessere sociale sempre più evidente, che le istituzioni sembrano incapaci di riconoscere e di gestire.
Le conseguenze psicologiche di un periodo di repressione come quello appena trascorso non si esauriscono né si risolvono spontaneamente. Per liberarsi della tensione accumulata in modo costruttivo le persone hanno bisogno di credere in un progetto, di agire per un obiettivo e di poter contare su una rete di sostegno sociale che le accompagni nel percorso di uscita dalla crisi. Nei cittadini abbandonati a loro stessi la sofferenza individuale tende invece a tradursi in aggressività sociale e l’Italia del post-pandemia sembra dominata da questo sentimento.
Nell’ultimo anno gli episodi di violenza, soprattutto giovanile, sono aumentati sensibilmente e sembra che il fenomeno – già anticipato dalle maxi-risse di Roma ed Ercolano dello scorso dicembre – almeno geograficamente si stia estendendo ad altre parti del Paese. Gli ultimi episodi hanno riguardato diverse località della Riviera Romagnola e Piazza Mercanti a Milano – città, questa, già segnata dalla guerriglia scoppiata qualche giorno prima a seguito di una rapina. Risse, pestaggi e sparatorie esistevano anche prima della pandemia. L’isolamento forzato e l’insicurezza costante hanno però agito come catalizzatori, esacerbando un disagio latente e, in molti casi, già al limite del sopportabile. Ad alimentare la frustrazione oltre al primo lockdown, sono state anche le inevitabili chiusure successive, per quanto a singhiozzo, il senso di incertezza e paura, l’impossibilità di programmare il proprio futuro, i messaggi contraddittori del governo e le direttive di regioni che cambiavano colore a settimane alterne.
A fare le spese di questa indecisione sono stati soprattutto gli studenti, rassegnati alla didattica a distanza, gli universitari, sistematicamente ignorati dai Dpcm ma con le tasse da pagare e i lavoratori precari, penalizzati da un blocco dei licenziamenti che ha condannato alla disoccupazione chi attendeva il rinnovo di un contratto a termine. Dopo un anno e mezzo in queste condizioni la pressione psicologica ed emotiva accumulata dalle persone più colpite dalle restrizioni è sempre più difficile da contenere e gli scontri che avvengono nel nostro Paese con una ciclicità apparentemente sempre più ravvicinata sono segnali di allarme che non possono essere ignorati.
L’eterogeneità dei background dei giovani italiani – studenti o lavoratori, con o senza una famiglia alle spalle, talvolta con uno o più figli da mantenere – rende necessaria la pianificazione di un piano d’intervento mirato, in grado di fornire agevolazioni concrete che non si limitino a micro-bonus erogati una tantum ma diventino interventi strutturali atti alla ricostruzione della società. Consapevole, almeno a parole, della necessità di rimettere le nuove generazioni al centro del dibattito, il presidente del consiglio Mario Draghi sembra puntare a un cambio di prospettiva: nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) approvato ad aprile la parola “giovani” appare infatti numerose volte, e agli under 35 in particolare viene riservata un’attenzione trasversale – che spazia dal finanziamento della ricerca e alla digitalizzazione della didattica, passando per sgravi fiscali e mutui agevolati.
Per favorire l’autonomia dei giovani che dipendono inevitabilmente dai genitori, però, non basta aiutarli a comprare una casa. Come spiega Luciano Monti, docente di politiche dell’Unione Europea alla Luiss di Roma, “Agevolazioni per il mutuo sono già in atto dal 2013, eppure i giovani non stanno acquistando […] Rimangono a casa non perché sono dei bamboccioni, ma perché non vedono delle prospettive”. “Il problema vero è la mancanza di un reddito autonomo”, continua il professor Monti. “Se non si crea lavoro è inutile spingere sui mutui: è come spingere sulle auto elettriche quando la gente non ha i soldi per comprarle”. Altrettanto inutile sarebbe attivare programmi di detrazione fiscale per giovani che, secondo un recente studio condotto dal Consiglio nazionale giovani (Cng) ed Eures, percepiscono uno stipendio medio inferiore ai 10mila euro annui – troppo basso, in molti casi, persino per essere tassato. Riprendendo il professor Monti, “La deducibilità fiscale andrebbe a favorire solo quella percentuale minima di coloro che possono contare su un reddito più alto”: non esattamente il modo migliore per colmare un divario socio-economico sempre più ampio sia fra le vecchie e le nuove generazioni, sia fra Nord e Sud.
Per garantire ai futuri lavoratori un’occupazione adeguatamente retribuita, uno degli assi nella manica di Draghi sembra essere la transizione digitale. Lo smart-working è stata la grande scoperta dell’ultimo anno, e i vantaggi hanno riguardato sia le aziende – con effetti che spaziano dalla riduzione dell’assenteismo all’abbattimento dei costi “vivi”, come utenze o affitti – sia i dipendenti, che hanno così risparmiato il tempo e il denaro prima destinati agli spostamenti. Poter lavorare dalla propria abitazione, inoltre, consentirebbe ai disoccupati di ambire a posizioni che prima avrebbero escluso per ragioni logistiche – impedimento, questo, che verrà ulteriormente ridimensionato grazie alla modernizzazione delle linee ferroviarie regionali e ad alta velocità.
Il mito dello smart-working, però, si scontra con una realtà in cui i lavoratori non sono robot, ma persone, e abbattere il confine, anche fisico, che prima distingueva la vita privata da quella lavorativa aumenta il rischio che quest’ultima diventi sempre più pervasiva, andando a intaccare la sfera più privata del nostro quotidiano. Per superare la crisi economica è fondamentale aumentare la produttività ma anche la sensibilità verso il riconoscimento dei bisogni umani: le relazioni e il riposo devono essere tutelati. Il lavoro digitale, benché conveniente da un punto di vista pratico, aumenta la probabilità di scivolare in uno stile di vita nevrotico, a causa della flessibilità oraria e della tentazione di “portarsi avanti” con il lavoro anche oltre l’orario di impiego. Ciò provocherebbe un aumento dello stress anche in assenza di pandemia, ma nella situazione di instabilità psicologica attuale il rischio di burnout aumenta esponenzialmente. Studenti, disoccupati, giovani precari – ma non solo – sono già sul punto di esplodere: se lo Stato vuole evitare che tale condizione si protragga, con conseguenze devastanti, deve assicurarsi che le aziende definiscano un numero di ore lavorative non derogabile, oltre a finanziare l’attivazione di un sostegno psicologico aziendale a disposizione dei dipendenti.
Nell’ottica della ripresa, un ulteriore aspetto da considerare è che l’aumento dei posti di lavoro e il potenziamento dell’autoimprenditorialità si fondano sul presupposto che i giovani siano motivati, possiedano la giusta dose di fiducia in se stessi e dispongano delle competenze tecniche e psico-emotive necessarie per affrontare con determinazione le sfide che li aspettano. Al momento, però, queste risorse mancano, e quelli che vengono raccontati come i futuri anni della ripresa – grazie ai fondi del Next Generation Eu – sono, per quelli che dovrebbero esserne i protagonisti, solo un grande punto di domanda. Come se ciò non bastasse, nell’ultimo anno gli under 30 sono diventati il capro espiatorio dell’emergenza sanitaria, raccontati come gli irresponsabili, gli egoisti, quelli esclusivamente dediti alla movida. Nemmeno il loro ruolo trainante nella campagna vaccinale è sufficiente a placare accuse che, in mancanza di un pretesto prettamente sanitario, sono tornate a focalizzarsi sulla sempreverde pigrizia lavorativa. L’assunto di base di queste argomentazioni, spesso condivise da politica e grandi aziende, è che giovani e precari non siano in grado di riconoscere le vere priorità della vita. Che risposta ci si aspetta allora di ricevere da categorie che da mesi compaiono nel dibattito pubblico solo per essere criminalizzate?
Il disagio esistenziale che ha colpito le fasce più esposte della popolazione, rimasto nell’ombra fino a ora, sta ormai emergendo con sempre più forza. Ma le persone che oggi vedono nella trasgressione l’unica valvola di sfogo possibile sono le stesse che, nel giro di pochi anni, avranno in mano per forza di cose le redini del Paese. Per questo motivo è assurdo parlare di produttività aziendale, agevolazioni fiscali e smart-working senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di elaborare un piano di sostegno psicologico serio, organizzato e orizzontale, necessario affinché i giovani recuperino – o acquisiscano – un po’ di fiducia nel futuro e nelle proprie capacità.
Per uscire dalla crisi, l’unica strada possibile è coinvolgere i giovani nel processo di ricostruzione del Paese e per farlo è essenziale che Stato, Regioni e Comuni condividano lo stesso piano d’azione, smettendo di perdere tempo in conflitti burocratici e concentrandosi su piani focalizzati realmente sullo sviluppo del territorio. A questo proposito un’attenzione particolare va rivolta alle località – come Roma e Milano – che si sono dimostrate essere più a rischio di violenza, a causa del loro valore attrattivo per i giovani e per le loro promesse spesso non mantenute. Scontri e disordini tanto frequenti non scoppiano per futili motivi, ma sono il sintomo di un disagio più profondo. Se le istituzioni non lo comprenderanno avremo fallito in partenza e, nonostante i buoni propositi di Draghi, non sarà possibile parlare né di ripresa né tantomeno di resilienza.