Lorenzo Fioramonti, il sottosegretario all’Istruzione di fede pentastellata, ha le idee chiare: vuole l’ex-Iena Dino Giarrusso a dirigere l’Osservatorio sui concorsi universitari. “Chi meglio di una ex-Iena può farlo?”, ha affermato. D’altronde a Mediaset faceva “il giornalista investigativo.” Ma non tutti la pensano così. Lo stesso Giarrusso, per sedare le polemiche, si è premurato di dichiarare: “A Le Iene ho fatto anche inchieste sul baronato, il programma mi ha insegnato parecchio.” Tutto normale quindi: un laureato in Scienze della Comunicazione con zero pubblicazioni all’attivo dirigerà uno tra gli enti di vigilanza più importanti del mondo accademico. Ma d’altronde è una Iena, ripetiamo tutti in coro: chi meglio di una Iena può farlo?
Questo caso da Repubblica delle banane si pone come un siparietto tragicomico – uno dei tanti della cronaca politica nostrana – sulla situazione del sistema scolastico e universitario nel nostro Paese. Ma non c’è niente su cui scherzare. Secondo l’Istat, l’Italia è penultima in Europa per livello d’istruzione: solo il 26,9% degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha portato a termine un percorso di studi di terzo livello o equivalente, e poco più del 60% tra i 25 e i 64 possiede un diploma. Un dato che si unisce all’alta percentuale di giovani che decide di abbandonare gli studi: nel solo 2017 il 14% degli studenti tra i 18 e i 24 anni ha deciso di interrompere la propria formazione, un trend che per la prima volta dal 2008 non ha registrato un miglioramento rispetto all’anno precedente. Sono statistiche che potrebbero lasciare indifferenti se non rapportate alla media Ue, dove per i titoli secondari è del 77,5% (per la fascia 25-64) per le generazioni fino ai 64 anni, e in ambito universitario quasi del 40% (per la fascia 30-34).
Anche lungo la stessa Penisola, si registra un divario interno tra Nord e Sud: dal 30% dei laureati in Settentrione si passa ad appena il 21% del Meridione. Ad aggravare il quadro sconfortante ci pensa anche la statistica sui NEET: il 25,7 % dei nostri giovani non è occupato, non studia e non cerca lavoro – nel 2016 era il 26% – mentre la media europea si attesta intorno al 14,3%. D’altronde, è difficile scegliere di puntare sulla formazione quando il comparto istruzione è costantemente afflitto da tagli milionari che lo rendono uno dei settori più in emergenza. Nel triennio che va dal 2018 al 2020 i tagli alla scuola potrebbero ammontare a 160 milioni di euro, una cifra mostruosa dovuta alle politiche di contenimento della spesa pubblica. Nel 2018 e nel 2019 la scuola potrebbe fare a meno di 36 milioni di euro annui, mentre nel 2020 la cifra dovrebbe essere di 35 milioni di euro. Oltre ai costi di mantenimento potrebbero essere tagliati anche i fondi destinati all’offerta formativa: 18 milioni nel 2018, 19 l’anno successivo e 17 nel 2020.
Così, mentre il governo investe tutte le proprie energie nel dibattere, in modo spesso becero, sul tema dei vaccini e dei migranti, la tragedia delle scuole italiane passa sotto silenzio. A pensarci bene, il problema dei bambini non vaccinati risulta urgente quanto il fatto che il soffitto potrebbe cadere sulla testa dell’intera classe da un momento all’altro. Non si tratta purtroppo di un’esagerazione. La situazione di emergenza in cui versano gli edifici scolastici per mancanza di fondi, non ottiene il risalto che dovrebbe, ma le scuole versano in condizioni precarie. I casi di crollo degli edifici scolastici sono troppi per un Paese civile: solo tra aprile e maggio di quest’anno sono caduti pezzi di soffitto a Roma, Firenze, Eboli e Busto Arsizio.
Avere un tetto sopra la testa, seppur pericolante, potrebbe essere già visto come un lusso se si considerano gli ultimi dati Istat, del 2013, sugli asili nido: nel migliore dei casi – come quelli di Bologna, Milano, Biella – poco più di tre bambini su dieci troveranno posto. Le tre provincie guidano la classifica nel pubblico e nel privato, rispettivamente con il 38%, il 34% e il 33% di bambini ammessi. Per tutti gli altri, l’offerta è irrimediabilmente più bassa. Questa situazione, oltre a essere profondamente ingiusta, non è priva di conseguenze sul piano economico e sociale: senza l’aiuto delle istituzioni è più facile che uno dei due genitori – nella maggior parte dei casi, la madre – rimanga a casa per provvedere al proprio figlio. Si limitano così le possibilità di crescita della famiglia e si va a perpetrare una condizione di subordinazione della donna che avremmo già dovuto abbandonare nel secolo scorso. A dimostrazione del fatto che un’offerta adeguata di posti nei nidi sia strettamente correlata al tasso di occupazione c’è un dato che mostra come, nelle province in cui l’offerta scolastica è più alta, lavori il 76% delle donne in età fra i 25 e 34 anni, mentre ad esempio, nel casertano – dove invece trova posto un bimbo su trenta – il tasso di occupazione femminile è del 31%.
La mancanza di fondi investe tutti i livelli del percorso formativo e si ripercuote soprattutto sul contesto universitario. Non conviene laurearsi perché – secondo il rapporto Ocse del 2017 – i laureati italiani trovano lavoro con difficoltà: l’Italia ha il 21% in meno di laureati maschi occupati – addirittura il 35% per le donne – rispetto al resto d’Europa. D’altronde, la penisola è l’ultimo Paese nella graduatoria per risorse destinate all’istruzione, che equivalgono a un misero 7% della spesa pubblica. In generale, solo il 18% degli adulti tra i 25 e i 64 anni possiede una laurea – anche questo dato è tra i più bassi dell’area Ocse, peggio di noi solo fa il Messico. Di questi, una fetta considerevole, pari al 39%, sceglie di intraprendere il percorso umanistico, attualmente meno spendibile di altri sul mercato del lavoro, e solo il 14% si laurea in materie giuridico-economiche, contro il 23% della media Ocse.
Se trovare lavoro dopo la laurea diventa un’impresa, anche portare a termine il percorso universitario senza risorse statali risulta difficile. Lo scorso anno, la Legge di Bilancio ha tagliato 10 milioni di euro al Fondo integrativo statale – quello che eroga le borse di studio – facendolo scendere da 30 a 20 milioni di euro: questo ha significato 3.500 borse in meno. Persino gli atenei di grosse dimensioni, generalmente più tutelati, hanno difficoltà a espletare le richieste. Emblematico è il caso dell’Emilia Romagna: nell’anno 2017/2018, nonostante la regione avesse ottenuto 81 milioni di euro da destinare alla tutela del diritto allo studio, non è riuscita a fornire la borsa all’8% degli aventi diritto. Per far fronte al grande numero di fuorisede presenti nella regione, si sta pensando di varare una norma di “portabilità”, ovvero una misura per cui sono le regioni di provenienza a farsi carico dei sussidi per i propri studenti, anche se iscritti altrove. Questo però comporterebbe un carico maggiore sui conti delle regioni più povere, dalle quali partono più studenti, senza avere benefici in cambio in quanto il fuorisede andrebbe ad arricchire il territorio in cui frequenta l’università.
Ci si chiede come verrà tutelato il diritto allo studio quando verrà abolito il numero chiuso, come scritto dal governo nel contratto gialloverde, una delle tante promesse che forse non verrà mai attuata. Per adesso, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti si è espresso su questioni sostanzialmente irrilevanti, come la settimana corta o la mole dei compiti a casa, glissando sulle vicende più spinose. Invece, sulla questione degli stipendi inadeguati per gli insegnanti si è dimostrato laconico: “Lo stipendio degli insegnanti dovrebbe essere all’altezza del ruolo che hanno e dell’impegno. Non possiamo però far finta di non conoscere la difficile situazione dei conti dello Stato.” Non si prevedono dunque miglioramenti né per il corpo docenti, né per l’intero comparto formativo. La parabola dello studente medio italiano è tragica: non trova posto all’asilo nido e quando va alle elementari rischia che un calcinaccio gli cada in testa; al liceo è tentato di abbandonare tutto perché inizia a sospettare che una laurea non serva a nulla e all’università abbandona prima di terminare gli studi. E anche se non dovesse cedere, e concludesse il percorso, magari partecipando a un bando di dottorato, si ritroverebbe un “giornalista investigativo”, che fino a due giorni prima si occupava di intrattenimento televisivo, a vigilare sulla regolarità dell’esame. Anche se la percentuale di laureati dovesse alzarsi di qualche punto, il suo umore rimarrebbe comprensibilmente sottoterra.