In una delle sue prime azioni in qualità di assessora al Welfare della Lombardia, Letizia Moratti ha scritto una lettera al commissario Arcuri per chiedere che la distribuzione dei vaccini fra le regioni segua quattro criteri: la mobilità, la densità abitativa, il numero dei casi e, non da ultimo, il contributo che queste danno al Pil nazionale. Le dichiarazioni di Moratti, prontamente smentite anche se confermate da un audio pubblicato dal Fatto Quotidiano, hanno scatenato lo sdegno dell’opposizione, e anche la risposta del ministro Speranza non si è fatta attendere: “Tutti hanno diritto al vaccino indipendentemente dalla ricchezza del territorio in cui vivono”, ha scritto il ministro su Facebook. “In Italia la salute è un bene pubblico fondamentale garantito dalla Costituzione. Non un privilegio di chi ha di più”. Nel contenere le polemiche, l’assessorato non ha fatto altro che confermare un messaggio che in modo più o meno velato ripete da mesi: bisogna aiutare prima la Lombardia per garantire la ripresa del Paese.
La proposta di Moratti non è una novità: a dicembre anche l’europarlamentare leghista Angelo Coccia aveva sostenuto la necessità di un piano vaccinale su base economica perché “se si ammala un lombardo, economicamente, da imprenditori, vale di più rispetto a un laziale”. Ma più in generale per mesi il Pirellone ha portato avanti l’idea che la Lombardia avesse la precedenza nella ricezione degli aiuti o nelle riaperture non solo perché è la regione più colpita dai contagi e dalle conseguenze delle misure di contenimento, ma anche perché è “la locomotiva d’Italia” senza la quale il Paese si fermerebbe. Una retorica di questo tipo è perfettamente in linea con l’idea che la Lombardia e in generale il Nord Italia siano migliori del resto dell’Italia. Anche in questo caso, non è niente di nuovo: la Lega delle origini aveva come base ideologica la superiorità anche morale del Nord sul Sud. Una concezione deprecabile che diventa particolarmente grave quando viene riferita a qualcosa che spetta a tutti in maniera indiscriminata e universale, cioè ai diritti. Il diritto alla salute, come sancisce la nostra Costituzione e come ha ricordato Speranza, non è qualcosa di negoziabile o soggetto a condizioni, soprattutto a quelle economiche.
L’idea che i diritti siano qualcosa che ci si deve guadagnare con la buona condotta o, peggio ancora, con il proprio contributo alla società, risuona spesso nell’opinione pubblica. Il caso della cittadinanza è forse l’esempio più noto: ottenerla in Italia è un processo molto lungo e spesso inconcludente, ma a volte viene concessa in via semplificata a “immigrati modello” che hanno compiuto azioni eroiche di vario tipo. In casi del genere l’encomio è garantito, da destra ma anche da sinistra, e suona come un “Per stare nel nostro Paese come cittadino, devi meritartelo”. Questo succede perché l’idea che i diritti non siano qualcosa di scontato, ma di riservato solo a chi si comporta bene, è riuscita a insinuarsi con efficacia nella nostra società. Quando emerge la notizia dell’ennesima violazione dei diritti umani in carcere, per esempio, c’è sempre chi sostiene che bastava che il detenuto non ci finisse se non voleva subire abusi. L’attenzione si sposta così dall’assenza di diritti costituzionalmente garantiti al giudizio su ciò che la persona ha commesso. Questa visione del diritto come di una tensione costante tra il potere e il cittadino, un ciclico do ut des in cui la morale diventa la chiave di accesso a ciò che dovrebbe invece riguardare la dignità di ciascuno, è lo specchio di una sistema in cui l’utilità è l’unica variabile che conta.
Secondo Jessica Whyte, professoressa associata di Filosofia alla School of Humanities and Languages dell’Università del New South Wales, la visione “meritocratica” dei diritti umani ha anche una data di nascita. Nel 1947, mentre cominciava l’istituzionalizzazione della materia attraverso la creazione della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, venne anche fondata la Mont Pelerin Society, espressione di una nuova scuola economica che prende il nome di neoliberismo. Questi due organi, all’apparenza inconciliabili, incrociarono spesso la loro storia: nel 1976, per esempio, venne assegnato il Nobel per l’Economia a Milton Friedman, tra i principali esponenti della Mont Pelerin Society; l’anno successivo quello per la pace ad Amnesty International. I pensatori neoliberisti capirono sin da subito l’importanza cruciale che aveva il tema dei diritti fondamentali per una visione della società che ha al suo centro la libertà, intesa come un diritto individuale e illimitato, nonché necessario e interdipendente alla libertà del mercato. Whyte sostiene che per portare avanti questo progetto economico si sia reso necessario “reinventare i diritti umani come il linguaggio morale della competizione dei mercati”. Questa riscrittura è servita sia a giustificare la libertà negli affari che a contenere i diritti stessi, legandoli indissolubilmente alla morale dominante.
In poche parole, secondo questa visione anche i diritti devono essere meritati. Può sembrare un modo di pensare cinico, ma è molto più diffuso di quanto si pensi. L’estensione anche agli ospedali del Daspo urbano, una misura introdotta dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti che dà al sindaco e al prefetto il potere di allontanare chi è sottoposto a questo provvedimento da alcune aree della città, poi inserita nei decreti sicurezza di Salvini, risponde a questa logica. Il Daspo è una misura di sicurezza che colpisce soprattutto le categorie sociali più vulnerabili, migranti, rifugiati e persone senza fissa dimora, negando loro l’accesso alle cure, che non dovrebbe però dipendere dalla fedina penale. La morale non riguarda però solo la buona condotta o il rispetto delle leggi, ma anche un criterio di tipo utilitaristico. Non si può non pensare, per esempio, alle parole del governatore della Liguria Giovanni Toti lo scorso novembre, che in un tweet scrisse che la maggior parte dei decessi legati al Covid registrati nella Regione erano di “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”. Il presidente disse di essere stato frainteso e che dietro quelle parole c’era solo un cattivo modo di esprimersi, ma è evidente una precisa visione della società che gerarchizza le persone in base a quanto sono – appunto – indispensabili.
Si potrebbe obiettare che una persona è libera di accedere alla sanità privata o di studiare in una scuola paritaria se può permetterselo. Il problema è che, in entrambi i casi, la commistione crescente e deregolamentata tra pubblico e privato ha portato le logiche del mercato anche all’interno del settore pubblico. Per quanto riguarda la scuola pubblica, per esempio, sono anni che si spinge verso il modello della “meritocrazia”, quando in realtà si tratta di un modello antidemocratico e classista, dal momento che le condizioni materiali di partenza sono in molti casi la vera circostanza che ostacola il profitto scolastico. Con il coronavirus, si è arrivati a situazioni paradossali. A ottobre il liceo statale Manzoni di Milano aveva approvato una delibera, poi sospesa, che esigeva la media del 9 e la residenza in un municipio del centro per potersi iscrivere all’anno scolastico successivo.
Una tale visione del mondo ha poco a che fare con la dignità che sta alla base dei diritti umani e più con la competizione, che è invece il motore del sistema attuale. I diritti diventano così un traguardo e non più un punto di partenza. Negli Stati Uniti, per esempio, l’idea che ciascuno sia libero e responsabile delle proprie scelte è uno dei motivi per cui non esiste un sistema sanitario pubblico e universale e una parte degli stessi statunitensi è convinta che il governo non sia responsabile della salute delle persone. Ma noi che siamo in un Paese dove, pur con tutti i problemi del caso, l’intervento statale è ancora una realtà, non possiamo permetterci che questa idea dilaghi. Proteggere la precedenza dei migliori, dei più bravi o dei più produttivi in un’ipotetica gerarchia di accesso ai diritti significa credere che anche quelli fondamentali siano qualcosa che può essere messo in discussione o che dipende dalle circostanze. Per fortuna il 1947 non fu solo la data di nascita della concezione meritocratica del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, all’autodeterminazione, ma anche l’anno dell’approvazione della nostra Costituzione da parte dell’Assemblea Costituente. Perlomeno in questo testo i diritti non si misurano con il Pil.