Il sex work esiste, che piaccia o meno: esiste la prostituzione in strada, esiste il lavoro di tante e tanti professionisti che vendono prestazioni sessuali online o in casa, esiste il lavoro nei “centri massaggi”, esiste il mondo della pornografia e di chi si esibisce davanti a una videocamera, esistono performer nei night club e tante altre sfumature di lavori sessuali che ancora si stenta a riconoscere come tali. Nella definizione comune, il lavoro è un’attività che permette la sussistenza degli individui, e il sex work è esattamente questo; ciononostante rimane uno dei grandi tabù in gran parte dei Paesi del mondo. Il tabù, che può turbare i valori e le sensibilità dei singoli, si traduce in politiche e leggi repressive nei confronti di altri individui, spesso marginalizzati: chi fa sex work non viene nemmeno riconosciuto come lavoratore dalla società, e tantomeno vengono riconosciuti i diritti fondamentali di questa categoria. Quello sul sex work è un dibattito che non può più essere rimandato.
La pandemia ha fatto emergere le difficoltà della maggior parte di coloro che lavorano in strada: impossibilitate a svolgere la loro attività a causa di restrizioni e coprifuoco, molte sex worker di strada hanno subito un drastico calo del loro reddito e al tempo stesso, in quanto non riconosciute come lavoratrici dallo Stato, non hanno avuto accesso a misure di sussistenza di emergenza. In città come Milano le sex worker si trovano in situazioni di indigenza tali da costringerle a rivolgersi a enti di solidarietà locali. Questo è dovuto anche al fatto che in Italia è ancora in vigore la legge Merlin del 1958, che, come dice il nome ufficiale, è di carattere abolizionista: Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.
Come spiega Giulia Zollino nel suo libro Sex work is work, pubblicato da Eris Edizioni, passando a questo modello si è creato un vuoto legislativo per cui “la prostituzione in Italia non è illegale, ma non è nemmeno un lavoro, quindi non ci sono diritti né tutele”. La legge, pur non punendo direttamente chi pratica, di fatto sanziona tutte le attività collaterali: “Se formalmente lo scambio sessuo-economico tra persone maggiorenni e consenzienti non viene criminalizzato”, continua Zollino, “nei fatti prostituirsi legalmente in Italia è difficile ed è molto comune essere accusat* di favoreggiamento e/o sfruttamento. Per non parlare poi delle innumerevoli ordinanze comunali che, per motivi di ‘decoro urbano’ o ‘pubblica sicurezza’, multano clienti e sex worker, provocando una progressiva marginalizzazione del lavoro sessuale”.
Esistono ovviamente altri modelli oltre a quello abolizionista (applicato anche in Inghilterra e Spagna), ovvero quello proibizionista (Stati Uniti) e quello regolamentarista (Turchia) di vecchio stampo, mentre i più recenti sono quelli che provano a ripensare la legge in modo più inclusivo. Si tratta dei modelli neo-regolamentaristi di Germania, Paesi Bassi e Svizzera, e di quello di decriminalizzazione della Nuova Zelanda. Esiste infine il cosiddetto “modello nordico” neo-abolizionista di Svezia, Norvegia e Francia, che “si basa sul principio per cui la prostituzione è una violenza dell’uomo contro la donna, e che la donna è automaticamente una vittima dello sfruttamento sessuale”, come spiegato da Giulia Siviero su Il Post.
Questo modello viene aspramente criticato perché ritenuto razzista, accanendosi soprattutto sulle sex worker migranti, quelle più spesso indotte o costrette da altri, come spiega l’attivista Linda Porn nel pamphlet Sex Work e colonialismo. “Questa legge è un chiaro attacco classista nei confronti delle lavoratrici di strada”, scrive l’attivista, “per relegarle sempre più alla marginalità, alla povertà e allo stigma, sprofondando quindi nella miseria”. Misure simili rivelano infatti le varie e infinite forme di “paternalismo dello stato”, per cui si assume che le sex worker siano sempre vittime (di abusi fisici e tratta) e quasi mai individui autodeterminati, che magari scelgono consapevolmente il lavoro sessuale al posto di altri, sottopagati ma legali. Con la conseguenza paradossale che la criminalizzazione non impedisce alle persone di fare sex work, ma lo rende più pericoloso. Per questo, un sistema ideale dovrebbe porre le condizioni di sicurezza e tutela di chi fa questa scelta, per evitare le violenze e difendere dalle possibili ritorsioni, come idealmente accade per qualsiasi tipo di lavoro regolamentato.
Oltre al problema legislativo, in Italia il tema non viene affrontato con la giusta prospettiva nemmeno dai media, che ancora ne parlano dividendosi tra la narrazione pietistica della vittima e quella morbosa della giovane donna empowered. Sono entrambe due narrazioni fuorvianti, approssimative e lesive per tutta la categoria sex worker. Stando a quello che raccontano i giornalisti italiani, esisterebbero solo le lavoratrici sessuali descritte come vittime di “Un panorama fatto di disperazione, solitudine, sesso a pagamento”, oppure come giovani donne, rappresentate come businesswomen senza scrupoli, alla ricerca di soldi facili per potersi pagare gli studi o benefit che normalmente non sarebbero in grado di ottenere, possibilmente all’oscuro della famiglia. Storie di questo tipo alimentano una narrazione che ricopre di una patina glamour il sex work, come se potesse essere una via semplice e praticabile per l’emancipazione femminile, senza evidenziare il privilegio di partenza che appartiene alle donne che lo praticano (bianche, di status medio-alto, di bell’aspetto e con diritti civili garantiti, perché italiane o cittadine comunitarie).
La rappresentazione è però una parte fondamentale della percezione pubblica, così come l’utilizzo delle parole. L’espressione inglese “sex work” non serve solo come ombrello per intendere differenti modi di praticare sesso dietro scambio economico, ma ha anche una valenza politica: è stato coniato nel 1978 dall’attivista femminista Carol Leigh nell’ambito della prima conferenza Women Against Violence in Pornography and Media di San Francisco, che ha proposto di nominare un panel Sex Work Industry al posto di sex use, come inizialmente pensato. Nel 1987 entra nell’uso comune diventando il titolo del saggio Sex Work: Writings by Women in the Industry, a cura di Frédérique Delacoste e Priscilla Alexander, mentre in Italia arriva nel 1994 grazie alle attiviste Pia Covre e Carla Corso, fondatrici nel 1982 del Comitato per i diritti civili delle prostitute. Sex worker, in quanto termine prestato dall’inglese, permette di non avere una connotazione di genere e focalizza il punto proprio sul fatto che si parla di lavoro, liberandolo dal velo di moralità che accompagna tutti gli altri termini della lingua italiana, spesso spregiativi e offensivi.
Il libro Revolting prostitutes – The fight for sex workers’ right di Molly Smith e Juno Mac prova proprio a scardinare tutti i pregiudizi e l’ignoranza che circondano il mondo del sex work, riconducendolo a una problematica intrinseca del sistema capitalista. Il nodo, secondo le autrici, è che fare sesso per denaro non è diverso da una qualsiasi altra prestazione lavorativa: si ritiene che chi sceglie il sex work lo faccia sempre dietro violenza e coercizione, ma si può trattare anche di una scelta di sopravvivenza razionale, laddove fare sex work spesso garantisce migliori condizioni economiche di tanti altri lavori non-specializzati. Il sex work riguarda anche e soprattutto le donne e le minoranze LGBTQI+ perché oppresse in un sistema patriarcale, dove la disponibilità economica è soprattutto nelle mani degli uomini etero bianchi.
“Il nostro mondo ideale è un mondo dove non c’è posto per la disperazione economica che costringe le donne a questa situazione”, si legge nella traduzione di un passaggio del libro sul sito Pasionaria.it. Che prosegue così: “La vulnerabilità lavorativa che affrontano tutti i giorni le persone che lavorano nel sex work è causata dalla mancanza di riconoscimento che alimenta lo stigma, l’invisibilità per lo Stato, l’assenza di diritti certi e di strumenti di welfare, tutto ciò a causa della pretesa costante e ipocrita che questo lavoro non debba esistere”. Voler impedire il lavoro sessuale, dunque, ha solo una motivazione morale, influenzata dalla cultura sessuofobica in cui vive ancora gran parte del Pianeta. Se ancora purtroppo si è lontani dal superare le disparità che impediscono a determinati individui di accedere a condizioni di lavoro migliori, garantire pieni diritti e tutela a chi si trova nella condizione di fare sex work è solo l’inizio. Solo cominciando a parlarne apertamente e senza stereotipi si può quindi abbattere lo stigma che lo circonda, riconoscendolo come lavoro vero e proprio e finalmente regolamentato come tutti gli altri lavori considerati legali.