Nell’ultimo anno abbiamo imparato che un sacco di cose che credevamo fossero ormai date per certe invece non lo sono: oltre alle mezze stagioni e agli uomini di una volta, non esiste un allarme razzismo, non esistono le famiglie arcobaleno e, dalle ultime in ordine di tempo, a quanto pare anche le persone trans sono un’allucinazione collettiva del mondo progressista.
Il New York Times ha infatti reso noto che il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti d’America – che dipende dell’amministrazione Trump – ha deciso di dare una definizione legale del termine “sesso” su “Una base biologica che è chiara, radicata nella scienza, oggettiva e amministrabile.” Chi non conosce bene le questioni di genere, potrebbe dire che fin qui non c’è niente di male. Ci sono i maschi e le femmine, che hanno corpi diversi, così come dicono le nostre carte d’identità. E infatti nessuno lo mette in discussione; è quello che viene dopo il problema: “Sesso identifica lo stato di una persona come maschio o femmina, basandosi su tratti biologici immutabili, identificabili dalla nascita o prima di essa. Il sesso indicato sul certificato di nascita di una persona, come originariamente emesso, deve costituire la prova definitiva del sesso di una persona, salvo la confutazione di una prova genetica affidabile.”
Questo significa dire che le persone transgender o transessuali, ovvero le persone che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita e che per questo motivo possono non essere d’accordo con il sesso indicato sui loro documenti, non esistono. Distinguere fra sesso e genere, come da tempo fa il mondo accademico, è fondamentale per la dignità delle persone trans: il sesso è quella base biologica che non si può negare o cancellare, e che si può definire come una serie di caratteristiche anatomiche e biologiche che solitamente vengono ricondotte al maschio o alla femmina. Il genere, o ancor meglio il ruolo di genere, invece, è il modo in cui si sceglie di presentarsi alla società, e può basarsi sull’identità che si sente più affine alla propria. Insomma, una persona può sentirsi un uomo, una donna o niente di tutto ciò a prescindere da quello che ha tra le gambe.
Eliminare la distinzione tra sesso e genere è il primo passo per disconoscere i diritti delle persone trans, che dovremmo smettere di considerare una questione esclusivamente interna ai circoli LGBTQ. I diritti trans devono essere riconosciuti per quello che sono: diritti umani.
Nel 2011 l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite in un report molto dettagliato aveva espresso grande preoccupazione per le leggi discriminatorie e gli atti di violenza basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere attuati in molti degli Stati membri. L’anno seguente l’OHCHR organizzò un panel per discutere della questione ma, come si legge nel relativo documento, un numero significativo di rappresentanti delle Nazioni uscì dalla sala ancor prima dell’inizio della discussione in segno di protesta, mentre molti altri espressero la loro contrarietà perché, a detta loro, i diritti LGBTQ non riguardano i diritti umani. La vera svolta è arrivata nel 2016, con una risoluzione per la protezione contro la violenza e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, votata da 23 stati su 47: è stato il primo riconoscimento ufficiale dei diritti trans come veri e propri diritti umani.
Nei soli Stati Uniti le persone che si identificano col termine “trans” sono circa un milione, una ogni 250. In Italia non esistono stime ufficiali, anche se il Centro di riferimento di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità ha cominciato una ricerca per scoprire quante sono e quanto sono in salute le persone trans nel nostro Paese. A giugno di quest’anno, nel mese del pride, l’OMS ha tolto la transessualità dalla lista delle malattie mentali, compiendo un grande passo per diminuire lo stigma e le discriminazioni nei confronti di chi si riconosce in questa condizione, anche nell’ambito sanitario dato che chi sta compiendo la transizione dovrebbe accedere alle terapie in modo sicuro e gratuito, anche solo per ribadire che le persone trans non sono malate.
Quando si parla di violenza o discriminazione contro le persone trans, si pensa subito a quegli odiosi episodi di insulti, pestaggi o minacce rivolti nei loro confronti. Ma dire che i diritti delle persone trans sono diritti umani è andare oltre: significa riconoscere la possibilità dell’auto-determinazione al di là della propria identità di genere e proteggere ogni persona non solo dalla violenza fisica, ma anche da quella dell’autorità. I diritti umani comprendono, tra gli altri, il diritto alla sicurezza sociale, al lavoro – che spesso per le persone trans diventa un incubo trovare – al libero e pieno sviluppo della personalità e alla salute, tema che diventa centrale per chi deve sottoporsi a un percorso di transizione, che prevede una serie di interventi ormonali e chirurgici. Uno Stato che impedisce anche una sola di queste cose a un gruppo di cittadini discriminato sulla base dell’identità di genere è oggi uno Stato che viola i diritti umani.
L’amministrazione Trump, d’altronde, sta facendo del suo meglio per conquistare questo titolo: ha annullato vari regolamenti dell’era Obama che proteggevano i diritti delle persone trans nelle scuole superiori, nelle prigioni e nei rifugi per senzatetto, e a marzo di quest’anno ha bandito le persone in transizione da tutti i ranghi dell’esercito. E Roger Severino, il direttore dell’Ufficio per i Diritti Civili del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, aveva definito le misure di Obama per estendere la nozione di sesso all’identità di genere “Ideologia gender radicale”, un’espressione impropria a cui purtroppo ci siamo abituati anche in Italia.
In Italia, per fortuna, la legge protegge molti diritti delle persone trans, come ad esempio la possibilità di proseguire la terapia ormonale anche in carcere, l’autorizzazione all’intervento chirurgico anche sui minori, con il consenso dei genitori, o dal 2015 la rettificazione anagrafica del sesso e del nome a prescindere dal trattamento chirurgico (è comunque necessaria una sentenza del Tribunale, come per chiunque decida di modificare il suo nome). Questo ovviamente non basta: a contare è quello che dice la carta d’identità, e rettificare il sesso all’anagrafe può essere un percorso lungo e difficile e finché sulla tua carta c’è scritto “maschio”, per lo Stato sei un maschio, anche se hai l’aspetto di una femmina, o viceversa. Questo può avere ripercussioni gravissime: le difficoltà legate alla ricerca di un lavoro o all’inclusione sociale a volte possono portare alcune persone trans, specialmente quelle immigrate, a vivere ai margini della società, e qualora dovessero finire in carcere verrebbero assegnate in base al sesso dei documenti, con un serio pericolo per la loro incolumità. Anche iscriversi all’università può essere difficile se sul tuo libretto c’è scritto “Giovanna” ma tu ormai sei “Luca”. Per questo motivo vari atenei italiani, come ad esempio la Statale di Milano o l’Università di Trento, hanno attivato le cosiddette “Carriere Alias”, ovvero dei profili burocratici temporanei che comprendono un badge e un nuovo indirizzo mail che sostituisce il nome anagrafico con quello adottato.
Se oggi pensiamo di aver fatto molti passi avanti nel mondo dei diritti LGBTQ, è guardando la situazione delle persone transgender che dovremmo ricrederci: secondo un sondaggio dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea le persone trans subiscono le discriminazioni più pesanti negli ambiti del lavoro, della scuola e della sanità. Due su cinque dichiarano di aver subito ripetuti episodi violenza a causa della loro condizione. A questo si aggiunge la transfobia interiorizzata dei gruppi LGBTQ, che ripetono le dinamiche discriminatorie che solitamente avvengono tra etero e gay. All’ultimo pride di Londra, per esempio, un gruppo di lesbiche radicali ha inscenato una protesta anti-trans perché, a detta loro, le donne trans non sono vere donne e il loro obiettivo è quello di oscurare le lesbiche. Queste motivazioni sono anche alla base delle TERF, le Trans-Exclusionary Radical Feminists (femministe radicali trans-escludenti), che pur proclamandosi femministe discriminano altre donne, le trans, sulla base delle stesse motivazioni ideologiche di Trump o del ministro Fontana.
Intanto i numeri parlano diversamente: nell’Osservatorio nazionale identità di genere di Napoli si è passati da un solo minorenne transgender preso in carico nel 2005 a ben 31 nel 2018. Alla Travistock and Portman Clinic di Londra, l’aumento è stato del 300%. Da tempo, molti si interrogano sull’exploit di teenager che si dichiarano trans, soprattutto negli Stati Uniti: questo fatto è indubbiamente dovuto a una maggiore apertura nei confronti della fluidità di genere anche da parte dei media e dell’opinione pubblica. Celebrità come Ruby Rose e Laverne Cox o le riviste e i canali Instagram più seguiti dai teenager non hanno paura di mostrare questo lato della realtà. La società civile, però, non sembra andare di pari passo: secondo un sondaggio, più della metà degli adolescenti teenager ha tentato il suicidio nell’ultimo anno per le difficoltà legate alla transizione.
Che i bigotti se ne facciano una ragione: le persone trans esistono eccome e chiedono di essere riconosciute. L’unica cosa a non esistere in tutto questo è la fantomatica ideologia gender a cui piace tanto appellarsi. Anche cancellando la dicitura di genere o affermando che questa o quella categoria non esiste, quel che resta sono milioni di persone che chiedono che i propri diritti all’autodeterminazione siano rispettati.