Se paghi i tuoi capi di moda pochi euro, stai pagando ancora meno chi li ha realizzati per te - THE VISION

Negli ultimi anni la sostenibilità ha viaggiato tantissimo fino a raggiungere quasi ogni segmento del mercato. Esistono ormai linee a ridotto impatto ambientale praticamente per qualsiasi cosa, e questo è un bene: beauty, wellness, arredo, design, automotive e ovviamente moda. È proprio nella fashion industry che la sostenibilità ha guadagnato e continua a guadagnare sempre più terreno. Gli eventi che la trattano sono sempre di più – basti pensare che quest’anno una vetrina blasonata della moda internazionale come Pitti uomo abbia dedicato l’edizione 22 alla sostenibilità – e non mancano neanche i brand, sia piccoli che grandi, che stanno investendo in linee sostenibili, catene di fast fashion comprese. Sono proprio i grandi colossi della moda, sotto la pressione dell’opinione pubblica che da qualche tempo ormai si pongono obiettivi sempre più green per riciclare i materiali utilizzati, sviluppare nuove fibre in grado di diminuire l’impatto della filiera produttiva e ridurre lo spreco di acqua e le emissioni di anidride carbonica. 

Una ricerca condotta da Rank and Style (la piattaforma del settore fashion che analizza gli insight basati sui dati) già nel 2019 stimava che alcuni fra i brand che avevano fatto della sostenibilità il loro punto di forza avevano visto crescere il loro fatturato del 450% nei due anni precedenti. Se tutto questo rappresenta un indubbio passo in avanti – visto e considerato che l’industria della moda è la seconda più inquinante del pianeta dopo quella petrolifera e che, tanto per fare qualche esempio, solo nel 2017, come riportato da Il Sole 24 Ore, sono stati prodotti 154 miliardi di pezzi d’abbigliamento per vestire (in maniera diseguale) un pianeta popolato da circa 7,6 miliardi di persone, o che sono necessari all’incirca 10mila litri di acqua per produrre un paio di jeans – restano aspetti della sostenibilità che continuano a essere trascurati e in alcuni casi, controversi. In questa corsa, infatti, molti brand si sono auto-autodefiniti sostenibili in tempi record e hanno comunicato la loro sostenibilità con campagne social d’impatto – etichettando i loro capi come “Bio”, “Organic” o “Conscious” – senza però essere davvero in possesso delle certificazioni di base. Una fra queste è la GOTS, ad esempio, che certifica non solo il fatto che un capo sia stato realizzato con materiali biologici, ma anche che la manodopera utilizzata sia stata retribuita in modo idoneo e che chi ha prodotto il capo abbia lavorato in condizioni dignitose. 

La sostenibilità, infatti, non ha solo a che fare con i materiali utilizzati o con il processo di lavorazione dei capi, ma coinvolge l’intera filiera produttiva, che spesso comincia in un campo o in un allevamento dall’altra parte del mondo e finisce in un negozio nella nostra città. Quando un marchio utilizza tessuti ecologici o bio, infatti, l’unica cosa che sappiamo per certo è che si tratta di un capo “ecologico”, ma questa dicitura, in sé non ci dice nulla sulla sua sostenibilità globale, che ha invece a che fare anche con la catena di approvvigionamento, la trasparenza e l’aspetto sociale della produzione tessile. Poiché molto spesso la produzione viene delocalizzata in Paesi come la Cina, il Pakistan, il Bangladesh, il Marocco, ma anche la Turchia e la Bulgaria, in cui il costo della manodopera è molto più basso perché non esistono leggi a tutela dei diritti dei lavoratori, è ancora più complicato stabilire la sostenibilità al 100% di un capo, che per essere tale dovrebbe essere lavorato in maniera trasparente dalla produzione della materia prima fino all’assemblaggio. Si tratta di un sistema lungo, che richiede mesi per compiersi e che spessissimo lascia dietro di sé una scia di ingiustizie e povertà di cui fanno le spese milioni di persone.

Eppure, nonostante si tratti di un aspetto importante tanto quanto i fissanti chimici utilizzati in fase di tintura, tutto ciò che concerne i diritti dei lavoratori continua a essere messo in secondo piano. Ne è prova il fatto che il 30 marzo scorso la Commissione europea ha inserito il tema della sostenibilità della moda all’interno di un nuovo pacchetto di proposte per l’economia circolare facendone uno degli elementi centrali del Green Deal. Anche in questo pacchetto di proposte, però, non sono stati affrontati i temi centrali alla base dello sfruttamento che colpisce la filiera produttiva, come le pratiche commerciali sleali e i prezzi troppo bassi imposti dai marchi committenti ai fornitori, che sono poi la ragione primaria dei salari da fame. Attualmente non esistono norme vincolanti, leggi o sanzioni a livello internazionale che le imprese multinazionali devono rispettare in materia e manca anche una adeguata regolamentazione del lavoro subordinato all’interno delle piccole e medie imprese a cui i grandi gruppi appaltano le produzioni, sulle quali spesso e volentieri, per evitare accuse i grandi gruppi scaricano la responsabilità del mancato rispetto di norme o leggi che riguardano le condizioni di chi vi lavora.

Quando in Bangladesh nel 2013 il Rana Plaza – ovvero il palazzo che ospitava fra le altre cose una fabbrica tessile che confezionava abiti per conto di alcuni importanti marchi occidentali costringendo gli operai a lavorare anche 12 ore al giorno per pochi spiccioli – collassò su sé stesso uccidendo 1138 persone e ferendone gravemente 2500, alcuni dei marchi coinvolti sostennero di non essere a conoscenza delle condizioni dei lavoratori e di non avere colpa poiché si erano affidati a terzi per la produzione. La stessa cosa che hanno dichiarato in seguito alle accuse di aver affamato 400mila lavoratori dello Karnataka, in India, dove hanno delocalizzato la produzione, alcuni fra i più noti brand del fast fashion mondiale quando, nel 2020, in seguito a un’indagine del Workers Rights Consortium (WRC), è emerso che Shahi Exports, uno dei più grandi produttori di abbigliamento in India, da due anni non pagava i salari minimi ai propri lavoratori. Le fabbriche indiane del Karnataka come quelle di tanti altri Paesi del Sud-est asiatico sono purtroppo note per le condizioni disumane nelle quali versano i lavoratori del settore tessile, spesso minori. Oltre agli ambienti di lavoro insalubri – senza finestre e senza aria – si lavora per salari bassissimi – al di sotto del minimo fissato – fino a 16 o anche 20 ore al giorno, con straordinari obbligatori e fra abusi verbali, fisici e sessuali subiti soprattutto dalle giovani lavoratrici, bambine e adolescenti, che in molti casi risiedo all’interno delle fabbriche stesse e che, a causa degli abusi, sviluppano disturbi comportamentali, non di rado tentano il suicidio e in altri casi muoiono tentando di scappare.

La tragedia di Rana Plaza, Bangladesh, 2013

Come hanno spiegato Marina Spadafora (coordinatrice italiana di Fashion Revolution) e Debora Lucchetti (ideatrice della campagna Abiti puliti), le imprese ancora oggi preferiscono e favoriscono un codice di condotta volontario sotto forma di carta etica o di codice etico aziendale, che però, per quanto testimoni la loro buona volontà, non è uguale per tutti, ma deciso dalla stessa azienda, e soprattutto non impedisce la violazione dei diritti nelle fabbriche o nella filiera. Non illudiamoci, le cose non vanno bene neanche in Europa e Paesi come la Bulgaria, la Romania e la Slovenia stanno diventando il nuovo Bengodi per i marchi di produzione tessile. Da alcune interviste condotte da Clean Clothes Campaign nel maggio 2019 ai lavoratori del settore in Romania è emerso che questi percepiscono, per un orario di lavoro regolare, una paga media di 208 euro al mese e anche in Italia i problemi sono molti. Stando a quanto risulta, a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, lo scorso 18 aprile alcuni operai di una ditta tessile sono stati licenziati attraverso un messaggio WhatsApp perché si sono rifiutati di lavorare il giorno di Pasquetta. Lo stesso proprietario, nei giorni precedenti, aveva risposto alla proposta di lavorare di meno degli operai in questo modo: “Se volete lavorare 8 ore, trovate lavoro da un’altra parte”. Spesso i dipendenti riferiscono di condizioni lavorative prive di tutele e illegali, con operai assunti da anni con contratto a tempo determinato e part-time a venti o trentaore settimanali che in realtà sono anche 84 per 500 euro al mese.

La strada per una moda sostenibile è ancora in salita e lo sarà fino a quando non ci saranno leggi internazionali più eque che costringeranno i marchi ad assumersi la responsabilità delle loro catene di approvvigionamento; la responsabilità aziendale, infatti, non dovrebbe essere facoltativa così come non dovrebbero esserlo i diritti umani. Una grande parte delle problematiche relative all’impatto dell’industria della moda sull’ambiente e sulle persone potrebbe essere facilmente risolta rallentando la produzione. Attualmente ogni anno vengono buttati via 70 milioni di tonnellate di abiti usati e ci si chiede se abbiamo davvero bisogno di altri brand e capi sostenibili, che consumano comunque risorse e in molti casi vengono trasportati con mezzi inquinanti. Perché si trovi una soluzione, dovremo prima affrontare il vero problema: ci siamo bislaccamente convinti di poter “salvare il pianeta” e di ovviare a un problema strutturale ed endemico – quello del consumo smodato di beni e della sovrapproduzione – tipico del sistema capitalistico nel quale siamo, producendo e comprando beni “diversi”. Ma in cuor nostro sappiamo che l’unico modo per rendere la moda più sostenibile sarebbe smettere di comprare così tanti vestiti. Si potrebbero scambiare i vestiti, come qualcuno ha cominciato già a fare con gli swap party, ad esempio, prenderli in prestito o affittarli, riportare a nuova vita quelli che abbiamo già, acquistare second hand, e se proprio vogliamo comprare bisognerebbe scegliere e premiare gli artigiani locali e le piccole imprese.

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