Sto scrivendo questo pezzo dopo anni in cui, ogni volta che parlo del modo in cui il razzismo opprime le donne musulmane, qualcuno mi dice: “Non ti sta bene, pensa a come vengono trattate le donne nei Paesi islamici. Perché non critichi l’Islam invece di stare qui a criticare noi?”. Conosco profondamente i modi in cui l’Islam ci opprime. E so anche che le persone che dicono che tutto l’Islam è violento non stanno aiutando le migliaia di donne musulmane private della propria libertà in una società patriarcale. Stanno solo promuovendo l’islamofobia, e questo non fa altro che opprimerci di più. Una mia amica maggiorenne che vive a Londra, ad esempio, mi ha chiesto di aiutarla a scappare di casa. Lei è musulmana, e i suoi genitori non le lasciano alcuna libertà. Non può trasferirsi senza che diventino violenti. E lei è decisa a vivere la sua vita. Vuole uscire a cena con le amiche, vuole fare politica e vivere la propria sessualità senza doversi sposare. Quindi deve fuggire. Le donne musulmane in questo modo non diventano solo vittime del patriarcato in quanto donne, ma anche vittime di razzismo in quanto musulmane e questo rende mille volte più difficile essere indipendenti e libere.
Se non possiamo affittare una casa perché i locatori non affittano a stranieri, non possiamo lasciare le case dei nostri padri, quando si presenta la necessità di farlo. Se le scuole vietano i veli, come in Austria, non possiamo frequentarle senza trovarci a rischio di violenza da parte di parenti fondamentalisti. Salvini critica la misoginia dell’Islam, e nello stesso momento cerca di abolire la protezione umanitaria, il mezzo più utile per proteggere le migranti vittime di stupri, violenza domestica e discriminazione di genere. Esattamente la cosa di cui le donne musulmane più vulnerabili hanno bisogno.
Porre l’Islam come nemico giustifica politiche che marginalizzano chiunque faccia parte di quella cultura. Quando Salvini (o persino Micromega!) si oppongono alla presenza di un’attivista con il velo sul palco delle sardine, non si stanno opponendo all’oppressione delle donne musulmane, ma alla capacità di una donna con il velo di salire su un palco e parlare. Quando una piscina vieta a una donna con il burkini di nuotare, non sta incoraggiando questa donna a vivere il suo corpo diversamente, le sta semplicemente impedendo di nuotare. E questo è il contrario della liberazione.
Quando dite che l’Islam è violento, considerate una donna velata che cammina per strada una vittima di questa stessa violenza, o una minaccia, perché pensate che potrebbe essere potenzialmente violenta, in quanto integralista. In entrambi i casi, la sua voce e la sua esperienza è cancellata. Tutte le donne musulmane che conosco, me inclusa, hanno un rapporto molto più complicato con il velo di quanto si possa pensare. Una mia amica, ad esempio, ha iniziato a velarsi dopo un episodio di molestie sessuali, perché coprirsi – per di più con un oggetto considerato sacro – la fa sentire molto più al sicuro negli spazi pubblici, dato che riduce la possibilità di essere guardata e di diventare oggetto di desiderio. Mia cugina ha invece iniziato a velarsi come gesto di ribellione adolescenziale nei confronti dei suoi genitori atei. Queste donne non sono né vittime né minacce, e il modo migliore per capirlo è dare spazio alle loro voci, e lasciare che narrino le loro storie.
Le donne musulmane stanno già parlando tramite il femminismo musulmano. Molte persone vedono questa frase come una contraddizione. In realtà, è una forma di Islam che entra coerentemente nel mosaico di ideologie che costruiscono questa religione. L’islam, così come il cristianesimo, non è un monolite: dopo tutto, è una religione praticata da 1,8 miliardi di persone, in luoghi diversi tra loro, dall’Indonesia alla Siria, dalla Turchia al Bangladesh. E ognuna di queste regioni comprende una varietà di scuole islamiche. Le interpretazioni delle varie scuole non sono solo piccole variazioni su un tema, dato che, contrariamente alla percezione comune dell’argomento, il Corano è solo uno dei testi che costituiscono i vari credo musulmani. I commenti accademici e legali, chiamati Shari’a, ad esempio sono una parte fondamentale. Persino i cinque pilastri dell’Islam non sono presenti nel Corano, ma sono frutto di una specifica tradizione legale. Ci sono centinaia di Shari’a. Quando una persona muore, viene sepolta secondo i riti della propria Shari’a, cioè della specifica tradizione culturale e legale che si è sviluppata nella sua zona. Non esiste un unico Islam, né un’unica Shari’a musulmana.
In questa prospettiva, le letture femministe dell’Islam rientrano nel modo in cui l’Islam funziona: come un mix un po’ caotico di interpretazioni e tradizioni legati a tantissimi tempi e luoghi diversi. Dare spazio alle versioni dell’Islam che valorizzano la liberazione femminile è una scelta che non contraddice nessuna versione “base”della religione, proprio perché non esiste una versione base, ma centinaia di versioni con centinaia di letture diverse, che spesso si contraddicono a vicenda. Alcune di queste sono estremamente misogine. Altre sono femministe.
Basta guardare a Amina Wudud, una studiosa del Corano, che offre letture testuali del testo che contraddicono molte delle credenze popolari, maschiliste e misogine, sull’argomento. Per esempio, le settantadue vergini che ogni fedele dovrebbe trovare in Paradiso sono solo una lettura fatta molto tempo dopo la composizione del Corano. Il testo originale parla semplicemente della presenza di compagni e compagne in paradiso, in contrasto alla solitudine dell’inferno. Ci sono due parole usate per riferirsi a questi compagni: “hur-al-ayn” e “azwaj”. L’idea delle settantadue vergini si basa su “hur-al-ayn”, che è un termine menzionato solo nelle prime versioni del Corano, quelle composte alla Mecca. In questo periodo, Muhammad sta parlando con un gruppo di uomini di classe elevata, per convincerli che il suo progetto è politicamente attuabile. In una specifica tradizione poetica, le “huri” sono creature mitologiche, bellissime donne dalla pelle bianchissima e gli occhi scurissimi. Ma non c’è nessuna menzione delle huri nelle parti del Corano composte a Medina, cioè nel periodo più tardo della scrittura del libro, in cui Mohammad inizia a parlare con gruppi ben più vasti di persone. A questo punto, si parla solo di azwaj – letteralmente, “parti di una coppia”. Si legge (3.15): “E per coloro che si astengono dal male, ci sono giardini con fiumi che vi scorrono sotto, e compagni puri, e gioioso appagamento divino”. Il plurale di compagni, in questi versi, è coerente con il plurale di “credenti”, che si riferisce sia a uomini che a donne. Non si dice certo che ogni uomo avrà moltissime donne. E secondo la studiosa Zaynab Ansari, persino la parola “hur” può essere interpretata al neutro, dato che il plurale della parola è sia maschile che femminile. La lettura di questi versi, allora, diventa: “E li accoppieremo con compagni dagli occhi grandi” (44.54), “Li accoppieremo con compagni dai grandi, bellissimi occhi” (52.20).
Dare spazio a queste interpretazioni e queste letture nella cultura mainstream è molto più utile per la liberazione delle donne musulmane che dire: “Tutto l’Islam è misogino e patriarcale”, o suggerire loro di abbandonare il loro credo. Dare spazio a queste interpretazioni significa dire: vi stiamo ascoltando, le vostre voci hanno una dignità, e potete scegliere voi come vivere o non vivere la vostra fede.
Le femministe musulmane lottano ogni giorno per la liberazione delle donne. Amina Wudud è una delle co-fondatrici di Sisters in Islam, una associazione malese che lotta per cambiare leggi sulla violenza contro le donne, le spose bambine e la cosiddetta “polizia morale”. La rapper Mona Haydar celebra la forza e la gioia delle donne musulmane nelle sue canzoni. Associazioni di donne musulmane che offrono sostegno specializzato per la violenza domestica, sia materiale che psicologico, crescono ovunque nelle grandi città. Basta guardare al Progetto Aisha a Milano, o il Muslim Women’s Network in Gran Bretagna, entrambi gestiti e fondati da donne musulmane. Tutte queste donne sono artiste e attiviste che riconoscono l’importanza di un’analisi critica dell’islam, unita a sostegno concreto per le donne vittima di episodi razzisti e di violenza. Sono queste le voci che dobbiamo ascoltare se vogliamo davvero capire come sostenere la liberazione delle donne musulmane.