All’indomani dalla vittoria di Donald Trump alle presidenziali, l’opinionista del New York Times e docente della Columbia University Mark Lilla scrisse un corsivo che è diventato molto famoso, “The End of Identity Liberalism”. Secondo Lilla, la sconfitta di Hillary Clinton si spiega con la sua scelta di abbracciare le identity politics: rivolgendosi a donne, gay e minoranze, la candidata ha perso di vista l’obiettivo principale della sua campagna elettorale, ovvero la classe media bianca americana che da sempre costituisce la maggioranza dei Democratici. Le tesi di Lilla sono state riprese da molti altri commentatori politici e si sono anche trasformate in un saggio di grande successo dall’eloquente titolo, L’identità non è di sinistra. Questa non è una critica che viene soltanto dal mondo liberal, ma è sostenuta dalla sinistra più dura e pura. Anche il filosofo marxista Slavoj Žižek, ad esempio, da anni ripete la stessa cosa nella sua analisi sulla crisi dell’anticapitalismo.
L’idea che la presa della sinistra sia venuta meno a causa di una sua eccessiva attenzione nei confronti dei “diritti civili” a discapito dei “diritti sociali” ha grande fortuna anche in Italia. “Per battere i fascisti serve la bandiera rossa, non quella arcobaleno”, dice ad esempio il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, che più volte ha accusato il Pd di essere ormai troppo “fucsia” (tra l’altro riprendendo una formula di Diego Fusaro, il che la dice lunga). Se si deve (e si deve) fare una critica alla sinistra, è sbagliato biasimarla per aver “scelto” i diritti delle donne e quelli LGBTQ+ come se avesse avuto una pistola puntata alla testa. Al massimo quello che si può recriminarle è di aver lasciato perdere le questioni di classe, di essersi allontanata dai lavoratori favorendo gli imprenditori, di aver sostenuto politiche liberiste e, oggi, di irridere quei poveri che dovrebbe aiutare. Non di certo di aver fatto passare la legge sulle unioni civili.
Come fa notare Caroline Criado Perez in Invisible Women. Exposing data bias in a world designed for men, parlare del trionfo delle identity politics per spiegare la sconfitta della sinistra è improprio, perché anche essere un maschio bianco etero è un’identità, tanto quanto essere una donna nera e lesbica o una persona trans musulmana. Il problema è che l’identità del maschio bianco è la più scontata di tutte: non serve che venga specificata, perché è la norma su cui viene costruita da sempre la società, e quindi si sente paradossalmente meno “identitaria”. Se è vero che le minoranze influenzano la politica, e viceversa, è ancor più vero che per millenni l’identità maschio-bianco-etero ha determinato l’andamento della società e dell’economia senza che nessuno avesse niente da ridire. Spesso a sinistra si critica il perseguimento dei diritti civili perché si teme che facciano perdere di vista la collettività, in quanto comporterebbero una prospettiva soggettiva. Ma anche essere maschi bianchi etero implica uno sguardo soggettivo, sebbene per molto tempo si sia dato per scontato che, in quanto unico punto di vista possibile, fosse anche il più oggettivo.
Conseguenza di questo è il fatto che i diritti civili siano percepiti come diritti di un gruppo ristretto di persone e non come conquiste di tutta la società. Ad esempio, l’introduzione delle quote di genere è vista dai detrattori come una misura che privilegia le donne, quando in realtà si tratta di una politica volta ad allargare la partecipazione democratica. Le donne infatti non sono una minoranza, ma sono il 50% della popolazione: garantire politiche a sostegno delle donne agendo sui problemi che hanno una connotazione di genere (in questo caso si parla della secolare esclusione delle donne dalla gestione dello spazio pubblico, ma il discorso vale per qualsiasi altro tipo di discriminazione) significa promuovere l’inclusione di tutti e non “regalare diritti” a qualcuno.
Bisogna poi contare che anche le minoranze fanno spesso parte di quelle classi oppresse a cui storicamente si rivolge la sinistra: le donne, ad esempio, sono le prime vittime di povertà e disoccupazione che, a differenza della controparte maschile, nel loro caso è anche legata al sesso di appartenenza. Stando agli ultimi dati, ad esempio, si può vedere come solo il 28% delle giovani madri lavori full time e come la tipologia più diffusa delle famiglie con figli in Italia sia ancora quella in cui è solo l’uomo a lavorare. Sono temi di sinistra, non esclusivamente “femministi”: lavoro, welfare, previdenza sociale, conciliazione tra vita privata e vita professionale. Temi orizzontali, trasversali o, come direbbero le femministe, “intersezionali”.
Per questo contrapporre diritti sociali e civili come se fossero inconciliabili non ha senso. Quel che è certo è che intercorre una differenza tra i due: quando si parla di razzismo, omofobia o sessismo è facile trovarsi tutti (o quasi) dalla stessa parte, mentre è più difficile essere d’accordo sui grandi temi economici. L’abbiamo visto con i grandi successi di piazza dell’ultimo anno: la manifestazione a Verona contro il Congresso mondiale delle famiglie ha visto 100mila presenze, così come la marcia “People – Prima le persone” a Milano, lo sciopero del clima, i cortei dell’8 marzo e i Pride, che raccolgono sempre più adesioni. In questi casi si tratta di una lotta contro discriminazioni che vengono percepite come più urgenti e immediate, perché ci toccano in prima persona. Tuttavia è sbagliato anche pensare che opporsi a queste disuguaglianze non abbia niente a che fare con la collettività e che si tratti soltanto di rivendicazioni personali: ogni lotta è in realtà intersecata alle altre, e spesso condivide una base comune, che è l’anticapitalismo. Più a sinistra di così.
Ovviamente anche nei movimenti di piazza è necessario fare dei distinguo. Queste grandi manifestazioni hanno un carattere molto trasversale, e spesso molti militanti LGBTQ+ e molte femministe ne criticano in modo forte gli aspetti più liberal, come la presenza degli sponsor o della polizia ai Pride, il femminismo aziendale e il pink washing. Su una cosa ha ragione Žižek, ed è la critica a quello che lui chiama “pseudo-attivismo”, l’“urgenza a essere attivi, a partecipare, a mascherare il Nulla di quello che accade”, come scrive nel saggio In difesa delle cause perse. Lo pseudo-attivismo si differenzia dalla militanza perché manca di una base ideologica, di un punto di vista sulla società, ed è fine a se stesso. Il ruolo della sinistra non dovrebbe essere quello di biasimare gli attivisti o demonizzare i movimenti, ma di provare a riprendersi quello spazio che ora è occupato dagli striscioni com i loghi dei brand in testa ai cortei.
Diritti sociali e diritti civili possono essere tutelati nello stesso modo: non sono esclusivi tra loro né gli uni la conseguenza degli altri. Un ottimo esempio di integrazione è il Piano femminista contro la violenza maschile e di genere del collettivo Non una di meno, frutto della scrittura di migliaia di donne, che non è un semplice manifesto contro il sessismo, ma un programma politico che ha tra le sue priorità un riassetto socio-economico, considerato indispensabile per porre fine alle disuguaglianze. “I temi economici legati al lavoro e al welfare sono centrali per contrastare la violenza nel suo carattere sistemico,” si legge nel Piano. “Esiste infatti un nesso stretto tra la ristrutturazione capitalistica e neoliberale in atto e la violenza di genere che, in questo ambito, viene perpetuata attraverso i dispositivi di nuova segmentazione e frammentazione del lavoro, di esclusione, disoccupazione forzata, sfruttamento e impoverimento, attraverso la crescente dismissione del welfare in nome del risanamento del debito”.
Non una di meno ha inoltre scelto di riappropriarsi di una forma di mobilitazione e dissenso storica della sinistra, da tempo abbandonata, e cioè quella dello sciopero. Ogni 8 marzo, Giornata internazionale della donna, il collettivo invita tutte le donne e le soggettività oppresse ad astenersi dal lavoro salariato e riproduttivo. Spesso questo sciopero viene guardato con condiscendenza e con paternalismo da quelle frange della sinistra più nostalgiche, che non fanno altro che lamentare la sua morte, invocare i vari “La sinistra riparta da” e cercare i colpevoli del suo fallimento. Tra quest’ultimi, ci sono sempre anche i movimenti identitari delle minoranze, accusati di allontanare l’attenzione dai veri problemi dei lavoratori.
Intanto, mentre femministe, antirazzisti e la comunità LGBTQ+ provano a fare la sinistra dal basso nelle piazze, i “compagni” continueranno a dire che non c’è tempo per i diritti civili, e che vengono prima i diritti sociali. Ovviamente in collegamento dal salotto di casa con qualche talk show politico, con una copia del Capitale e una di Žižek in bella mostra sullo scaffale.