Una questione linguistica si è persa veloce nei tempi serrati della quarta serata del festival di Sanremo. Nei giorni successivi ha però scatenato la reazione degli spettatori e del web. Protagonista è Beatrice Venezi, la più giovane donna a dirigere un’orchestra in Europa, inserita da Forbes tra i 100 under 30 più influenti d’Italia. Chiamata sul palco di Sanremo per premiare il vincitore della sezione Giovani, ha chiesto al conduttore Amadeus di essere chiamata direttore e non direttrice d’orchestra: “Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un lavoro. La mia posizione ha un nome preciso, ed è direttore d’orchestra”.
Venezi non è la prima donna a compiere una scelta del genere. Basti pensare a due capisaldi della letteratura italiana del Novecento come Elsa Morante e Oriana Fallaci, che chiedevano di essere chiamate scrittori e non scrittrici per rivendicare un posto centrale in una scena culturale che divideva la letteratura dalla letteratura al femminile, scritta dalle donne per le donne. Stesso discorso vale per Alda Merini, poeta in un mondo dominato da poeti uomini. Allargando lo sguardo oltre i confini nazionali, a puntare il dito contro il problema è stata già Virginia Woolf, che in Una stanza tutta per sé ha affrontato il tema delle donne che scrivono dietro pseudonimo maschile: “Currer Bell, George Eliot, George Sand […] cercavano invano di nascondersi dietro un nome maschile. Così rendevano omaggio alla convinzione, la quale, benché non fosse stata imposta dall’altro sesso, era da questo largamente caldeggiata (‘La massima gloria di una donna è far sì che non si parli di lei’ disse Pericle, un uomo di cui si è parlato abbastanza), che la pubblicità nelle donne è abominevole. L’anonimità scorre nel loro sangue”. Alla base della scelta di queste donne c’era dunque un’idea forse mai del tutto esplicitata, ma pressante: quella di rappresentare una declinazione, una sottocategoria del genere maschile. Un’idea che ben presto si trasforma in timore, e che viene esaminata da Simone de Beauvoir nel suo saggio Il secondo sesso: l’uomo, in quest’ottica, è una sorta di base neutra, “non comincia mai a classificarsi come un individuo di un certo sesso: che sia uomo, è sottinteso”, al punto che diciamo gli uomini per indicare gli esseri umani. “Egli è il Soggetto, l’Assoluto – prosegue De Beauvoir, – Lei è l’Altro”.
Il femminile è percepito dunque come una forma marcata, peculiare di quella base neutra che è il maschile. È una letteratura specifica, è una poesia di nicchia, è un pubblico di donne che leggono solo donne. In questo scenario, ciò che fanno Morante, Fallaci, Merini e molte altre è solo ambire alla neutralità per poter smettere di parlare in quanto donne e iniziare a parlare e basta. Il concetto di marcatezza è interessante perché è alla base di molte categorie linguistiche, come quelle di numero e di genere – per esempio in italiano la forma non marcata di un sostantivo o di un aggettivo, quella che troviamo come lemma nel dizionario, è quella maschile e singolare. Ovviamente ognuno è libero di scegliere come essere definito, Venezi inclusa. Una libertà che forse, nel dibattito che è proseguito sul web negli ultimi giorni, si è persa in parte di vista. È interessante domandarsi, però, come mai Venezi sia arrivata a compiere questa scelta, e con lei tante altre donne che ogni giorno scelgono di non declinare al femminile il nome della propria professione. Forse si spiega proprio con questa necessità di non sentirsi la variante marcata di nessuno. Una necessità che viene spesso rivelata proprio dalla volontà di essere valutate esclusivamente in base al merito: come se il femminile distogliesse l’attenzione dalle reali capacità della persona, proiettandola sul suo genere.
Tra i commenti più celebri arrivati a supportare le parole di Venezi a Sanremo si sono fatti notare quelli di Matteo Salvini e del senatore leghista Simone Pillon. Il primo ha parlato di “parole di buonsenso contro le follie del ‘politically correct’”; il secondo si è lanciato in un tweet entusiasta: “Basta col politicamente corretto della Boldrini, che cambia le parole per non cambiare nulla. Bene le donne direttori d’orchestra. E chiamiamole direttori. Se lo sono meritato”. Se nelle parole di Venezi potevamo rintracciare un desiderio di neutralità e di “non marcatezza”, magari inconsapevole o interiorizzato – la volontà di essere valutate solo per la capacità di fare il proprio lavoro – nel tweet di Pillon emerge invece uno strisciante senso di superiorità maschile. In che senso “se lo sono meritato”? Cosa si sono meritate? Il maschile? No, queste donne si sono meritate – con talento e tenacia – di dirigere un’orchestra. Ma sul nome della posizione ricoperta la partita, con buona pace di Pillon, è ancora apertissima. Il caso di Venezi a Sanremo ci porta a una riflessione linguistica più approfondita. Ognuno è libero di autodeterminarsi, scegliendo di definirsi come meglio crede. L’errore di Venezi è stato semmai far passare una propria scelta come una verità granitica e assoluta per la quale il nome della posizione è “direttore d’orchestra”, senza possibilità di discussione. È un errore, un po’ perché la lingua muta, si trasforma, si sottrae alle logiche del “è sempre stato così, e sempre lo sarà”. Un po’ perché, semplicemente, non è vero. Il termine direttrice non solo è morfologicamente corretto – con il morfema flessionale -trice che va a marcare, per l’appunto, la forma maschile in -tore –, ma è già del tutto sdoganato. Non è raro che a capo di una scuola elementare ci sia una direttrice. Come non è (più) insolito dire maestra, scrittrice, attrice o così via. Certo, direttore è la forma che troviamo nel dizionario, ma direttrice non è una variante naїf della professione, o il capriccio di qualche femminista.
È dunque una questione di buonsenso linguistico, prima ancora che politica. Tuttavia non si può ignorare che, fuori dall’imprecisione delle parole di Venezi, si tratta anche di una questione politica: declinare i nomi delle professioni al femminile significa riconoscerne l’esistenza, prima ancora che la legittimità. L’utilizzo di determinate scelte lessicali e morfologiche ha un ruolo cardine nel dare peso e sostanza alla posizione professionale e sociale di tante donne: le riconosce, le chiama per nome. Una frase che si è sentita e letta spesso in questi giorni, ma che in generale ritorna ogni volta che si parla di professioni al femminile, è: “Le parole creano la realtà”. Per questo è così importante selezionarle con cura. Ma è davvero così? Se osserviamo il rapporto tra linguaggio e pensiero, tra linguaggio e cultura, la risposta che si finisce per dare è: non è così semplice. Certo è che le parole sono importanti e sono legate strettamente alla realtà: pensiero e linguaggio si inseguono, si plasmano a vicenda. Per afferrare meglio questa prospettiva, rimanendo focalizzati sulla categoria di genere, sono utili gli studi raccolti dal linguista George Lakoff in un saggio dal titolo emblematico: Women, fire and dangerous things (Donne, fuoco e cose pericolose). Il sottotitolo è Come la mente categorizza il mondo. Nel testo si analizza il caso popolazione aborigena del Queensland settentrionale, in Australia, che parlava la lingua dyirbal. Un idioma che disponeva di ben quattro generi, ripartiti in modo peculiare in base a criteri sostanzialmente semantici: alla prima classe appartenevano le parole che indicavano esseri umani maschili o esseri animati non umani, esclusi gli uccelli; alla seconda appartenevano gli esseri umani femminili, l’acqua, il fuoco, le armi e gli uccelli; alla terza e alla quarta rispettivamente le entità commestibili e tutto il resto. Senza entrare troppo nel dettaglio, ci si potrebbe chiedere perché nella seconda categoria confluissero proprio le donne, il fuoco, le cose pericolose e gli uccelli. Sarebbe impossibile capire questa organizzazione senza conoscere la cultura della popolazione dyirbal, nella quale il sole è concepito come femminile, e con esso dunque il fuoco e – per estensione – le altre cose pericolose. Gli uccelli hanno lo stesso genere degli esseri umani femminili perché, secondo i dyirbal, altro non sono che le anime delle donne defunte, libere di volare nel cielo. Questi studi risalgono agli anni Sessanta, ma per capire ancora meglio quanto linguaggio, cultura e pensiero siano legati è utile sapere che già negli anni Ottanta, a seguito di una prima contaminazione con la cultura anglosassone, il sistema a quattro generi si era semplificato, avvicinandosi al funzionamento dell’inglese. Questo perché la società in primis era cambiata, perdendo i riferimenti culturali necessari a comprendere l’organizzazione dei vari generi, che quindi erano in qualche modo svuotati di significato.
Linguaggio e realtà sono dunque indissolubilmente legati e si influenzano a vicenda. Ma è eccessivo, oltre che impreciso, dire che le parole creano la realtà; rischia di farci perdere di vista il quadro complessivo. Le parole registrano la realtà: la raccolgono, ratificano una situazione, le danno un riconoscimento e una dignità d’essere. È un gioco continuo tra parole e realtà, un sospingersi a vicenda. In quest’ottica le parole divengono centrali perché, pur non sufficienti da sole a creare la realtà, di sicuro le danno una bella spinta propulsiva: innescano un processo positivo che le conferisce solidità grazie alla forza di nominarla, di darle forma. E in questo senso, l’atto più politico che possiamo fare è anche quello più naturale possibile: chiamare le cose con il proprio nome (che spesso non va neppure inventato). Niente più, e sicuramente niente di meno.