Perché per una ragazza non è così facile dire no - THE VISION

Il 14 gennaio la rivista online www.babe.net ha pubblicato un resoconto – definito da The Atlantic un esempio di revenge porn in 3000 parole” – in cui si ricostruisce un appuntamento tra Aziz Ansari, comico americano e protagonista della serie di Netflix Master of None, e una fotografa, che all’epoca dei fatti aveva 22 anni. Il pezzo ha subito innescato un frenetico processo mediatico, volto a stabilire chi dei due fosse veramente colpevole, se si trattasse anche in questo caso di molestie e se fosse il caso di condannare all’oblio la carriera di Ansari. Un dibattito nevrotico che spesso non è riuscito a cogliere gli spunti di riflessione più interessanti di tutta la questione.

I due si conoscono a un after party dei Golden Globes, l’anno scorso. Attaccano bottone, si scambiano i numeri, si sentono e programmano un incontro. La cena organizzata sembrerebbe procedere discretamente, nonostante Ansari scelga di ordinare del vino bianco, mentre Grace – questo il nome dato alla protagonista della vicenda per proteggerne la privacy – preferisce il rosso – particolare che l’autore del pezzo ha ritenuto fondamentale per la narrazione. I due decidono di proseguire la serata a casa di lui: è lì che comincia una lunga danza che sembra diretta dal comico e a cui Grace pare stare dietro in modo titubante, se non con riluttanza. Ansari tenta più volte di arrivare a un rapporto sessuale con la ragazza: lei all’inizio sembra acconsentire, fino al rifiuto finale e alla fuga.

Il racconto è arricchito da dettagli non necessari, né ai fini di cronaca né a supporto della versione della ragazza. Particolari spesso voyeuristici, oltre che assolutamente privati. La questione parte quindi da un articolo che per la sua stessa forma svilisce l’intera vicenda e molte delle discussioni a cui essa ha dato il via. La cosa più rilevante di tutto il caos scatenato dal pezzo, però, sta proprio lì, nel dibattito successivo.

Nel tentativo di dimostrare l’assurdità delle accuse mosse contro Ansari, molti hanno insistito sul fatto che la ragazza avrebbe potuto semplicemente alzarsi, chiamare un taxi, tirargli un ceffone.

Qualche giorno fa la scrittrice Margaret Atwood ha pubblicato un pezzo sul quotidiano canadese Globe and Mail in cui, oltre a difendere giustamente il diritto alla presunzione d’innocenza, ribadisce quanto sia importante smettere di trattare le donne come mere vittime, totalmente in balia degli eventi e incapaci di decidere della propria vita. Questa posizione è solo in parte condivisibile, perché, per quanto possa essere desiderabile un mondo in cui alle donne viene attribuita la stessa agency che hanno gli uomini, non tiene conto di tutto un retroscena culturale, sociale ed educativo. Moltissime ragazze crescono nella convinzione, inculcata dagli adulti fin dalla loro infanzia, che sia meglio essere accondiscendenti e che sia obbligatorio giustificarsi quando si arrabbiano o quando prendono una posizione troppo categorica. Fin dai primi anni di vita vedono le proprie madri destreggiarsi tra i desideri dei padri, e dimenticare di avere a loro volta delle esigenze. Se la relazione tra i genitori è tra le variabili più importanti nello stabilire la natura dei rapporti tra uomo e donna, come si può pretendere allora che tutte, quasi per magia, ritrovino di colpo l’assertività?

Ora c’è chi si aspetta che improvvisamente levino la propria voce, e pretende, anche con le migliori intenzioni, che le donne inizino a esercitare lo stesso controllo sulla propria vita che un uomo viene invitato a ricercare fin da bambino. Lo scrive ancora meglio Jill Filipovic in un editoriale su The Guardian: “Alle donne viene insegnato in modo così perentorio a mettere il benessere degli altri prima del proprio, che, anche quando si trovano furiosamente a disagio, l’idea di prendere una posizione rimane terrificante. Ciò è specialmente vero quando siamo giovani.”

Molte donne ci riescono, e per questo meritano tutta la nostra ammirazione. Il loro atteggiamento, non solo verso il libero esercizio della propria sessualità, ma verso ogni altro aspetto della vita, è il risultato a cui dovremmo puntare nel nostro percorso verso l’uguaglianza. Molte altre, però, non hanno tutti gli strumenti per gestire le aspettative sociali con cui devono fare i conti. E questo non tanto per un’intrinseca condizione di debolezza, ma per tutto un retroscena culturale che, forse non esclusivamente, ma nella maggior parte dei casi rimane legato alla condizione femminile.

Prendiamo una situazione simile a quella dipinta dal resoconto di Grace. Una ragazza finisce a casa di un ragazzo dopo un appuntamento. Si sente in obbligo dopo la cena offerta? Bisognerebbe chiedersi quale meccanismo mentale porti la ragazza a percepire un tale dovere, in primo luogo. E che ruolo abbia la società nell’insorgere di tale meccanismo. Crede che il ragazzo le piaccia, poi cambia idea e non sa come uscire dalla situazione? Prima o invece di colpevolizzare il ragazzo per essere stato troppo insistente, forse andrebbe messa sotto accusa tutta un’educazione che porta quest’ultimo ad aspettarsi un rapporto sessuale, e la ragazza a sentirsi in colpa per aver improvvisamente deciso di non volerlo. Che la porta a fermarsi e stare al gioco per evitare di sembrare stronza, ambigua, manipolatrice – tutte caratteristiche che vengono molto più spesso attribuite al genere femminile che a quello maschile. O ad aver paura di far arrabbiare o di deludere il ragazzo, a volte addirittura scatenandone una reazione violenta, a livello verbale quando non fisico. Deludere rispetto a quali aspettative? “Un bacio non è un contratto”, dicevano i Flight of the Conchords, e accettare l’invito a casa di una persona non è un’ipoteca sui propri genitali. Purtroppo a tante viene insegnato l’esatto opposto.

La volontà che le donne abbandonino la propria posizione di subalternità, come dice la Atwood, è sacrosanta. Perché ciò avvenga tuttavia serve riconoscere, per quanto possa dare fastidio farlo, che tale subalternità – per aspetti a volte meno evidenti e quindi più insidiosi – esiste ancora, ed è da lì che dovremmo prendere le mosse. Il che non per forza implica una lotta tra generi e un’isteria in stile maccartista, in un completo abbandono della razionalità e dei principi del garantismo, né significa relegare le donne al ruolo di semplici vittime. Vuol dire prendere atto della situazione attuale e decidere di impegnarsi perché bambine e ragazze abbiano, attraverso l’educazione e i rapporti sociali, gli strumenti necessari per disporre del proprio corpo e della propria vita esattamente come farebbe un uomo.

Anche Caitlin Flanagan chiude il suo pezzo per The Atlantic dicendo: “Sembra che ci sia un’intera generazione che non sa chiamare un taxi”. A prescindere dalle accuse mosse contro Aziz Ansari o dalla presunta distruzione della sua carriera che queste avrebbero innescato, sarebbe utile cogliere quest’occasione per domandarsi cosa impedisca alle ragazze di oggi di levarsi da una situazione spiacevole chiamando quel benedetto taxi, o tirando un sacrosanto ceffone.

Nel discutere della questione, rischiamo di incagliarci in una ricerca aprioristica e poco razionale della vittima e del carnefice, che distoglie l’attenzione da un punto ben più rilevante: il clima culturale che ci ha portato a questo momento storico, quale alternativa vogliamo contrapporgli e in che modo pensiamo di arrivarci.

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