Le persone si dimettono in massa perché vogliono tornare a vivere, lavorando meno e lavorando meglio - THE VISION

Great resignation, burnout, big quit e smart working: sono numerosi gli anglicismi che hanno scandito la vita lavorativa di milioni di dipendenti in tutto il mondo negli ultimi due anni e che, con ogni probabilità, continueranno a definirla a lungo. Il fenomeno delle grandi dimissioni volontarie, accentuatosi in particolare negli Stati Uniti a partire dal 2019, continua a crescere nei numeri. Lo conferma l’ultimo report del dipartimento del lavoro statunitense che a gennaio 2022 ha registrato 4,3 milioni di licenziamenti volontari, un andamento in linea con le cifre record del 2021 che si chiuse con il dato annuale più alto di sempre, 48 milioni di dimissioni. 

Tra le cause analizzate ci sono il ripensamento generale del rapporto di equilibrio tra vita privata e lavoro e gli alti livelli di stress generati da modalità lavorative fin troppo agili e spesso pervasive all’interno delle mura domestiche. Fondamentale anche la motivazione economica: l’inflazione è tornata a livelli visti solo nella seconda metà del Novecento e gran parte degli aumenti salariali non sono sufficienti a compensare i rincari. La soluzione per molti lavoratori è stata quindi la rinegoziazione contrattuale o, in alternativa, il licenziamento volontario al fine di approfittare del recente aumento generale di offerte lavorative e relative condizioni di paga e flessibilità. Tra queste, la possibilità di lavoro ibrido, una caratteristica accelerata dalla pandemia che difficilmente verrà abbandonata nei prossimi anni. 

Se infatti il telelavoro completo rappresenta delle criticità legate alla mancanza di rapporto umano all’interno dell’ambiente professionale, il compromesso ibrido coniuga i benefici di entrambe le modalità. Un recente sondaggio condotto da Advanced Workplace Associates su diecimila lavoratori nei settori dell’energia, della finanza e della tecnologia rileva che l’84% degli intervistati preferirebbe lavorare da remoto per due giorni a settimana o più. È ormai chiaro che il cambiamento di abitudini lavorative vissuto negli ultimi due anni coinciderà con un mutamento di abitudini sempre più svincolato dalla concezione rigida del posto di lavoro. Maggiore indipendenza organizzativa, flessibilità e possibilità di combinare vita familiare a vita professionale sono condizioni che forse avremmo dovuto valutare ben prima della pandemia globale. 

In Italia, dove il concetto di lavoro agile ha valore legale solo a partire dal 2017, i risultati dopo due anni sono stati incoraggianti. Durante la prima ondata del Coronavirus e il relativo lockdown di metà 2020 quasi dieci milioni di Italiani hanno usufruito dello smart working, con il seguito di preoccupazioni sul loro calo di produttività. Verrebbe infatti da pensare che a fronte di una diminuzione di ore effettive lavorate in un contesto di emergenza a cui si sommano i non meno importanti rischi legati alla salute mentale di una società costretta all’isolamento, la soddisfazione e l’efficienza professionale siano i primi fattori a risentirne. Così non è stato: in una recente nota pubblicata dall’Istat, si legge che nel 2020 la produttività del lavoro è aumentata del 1.3% “in un solo anno”. Un risultato sorprendentemente positivo per un Paese in cui la crescita annua di produttività registrata dal 1995 a oggi non ha mai superato il valore medio dello 0,5%.

Tra i settori che hanno visto incrementi maggiori ci sono proprio quelli dove è più facile organizzarsi con il lavoro da remoto, ovvero il finanziario, l’assicurativo, l’informazione e la comunicazione. Le ore lavorate vengono ridotte e parallelamente nasce la necessità di mantenere l’efficienza aziendale attraverso una maggiore attenzione per l’innovazione e i vantaggi garantiti dal digitale. Non è una sorpresa quindi che l’ipotesi di mantenere la modalità di lavoro virtuale attraverso contratti ibridi sia sostenuta con simile entusiasmo da lavoratori e aziende: secondo un’indagine dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il 59% delle grandi imprese italiane dichiara aumenti di produttività e per il 39% dei dipendenti l’equilibrio tra vita e lavoro è sensibilmente migliorato. Altra nota positiva è il forte grado di inclusività che permette: pendolari, lavoratori disabili o con bambini e invalidi a carico ottengono infatti orari più flessibili e maggiore libertà organizzativa. In quest’ottica, la potenziale decisione da parte delle aziende di mantenere in futuro una formula lavorativa ibrida contribuirebbe a mantenere i benefici del telelavoro escludendone i limiti. Le problematiche psicologiche legate all’isolamento sociale e all’intrusività delle dinamiche lavorative anche durante le ore libere verrebbero infatti risolte attraverso l’alternanza tra casa e ufficio. 

Date le buone premesse degli ultimi due anni, sono sempre di più le realtà aziendali che si stanno organizzando per implementare il lavoro ibrido a emergenza conclusa. Al di là delle volontà di privati e aziende, tuttavia, in Italia non è ancora chiaro come verrà regolato da un punto di vista contrattuale e legislativo. A oggi, le semplificazioni relative al diritto di smart working per le imprese rimarranno in vigore fino al 30 Giugno 2022, quando in mancanza di ulteriori emendamenti si tornerà automaticamente al vecchio regime di contrattazione individuale. C’è però il rischio che questa ipotesi, se non accompagnata da proposte di riforma a livello nazionale o comunque collettivo, si trasformi in un passo indietro in direzione opposta alle tendenze del mercato e dei lavoratori. Lasciare la scelta di lavoro remoto alla sola volontà delle singole parti si tradurrebbe in lungaggini burocratiche dispendiose per l’impresa che si troverebbe meno incentivata a estenderla o implementarla. È invece necessario armonizzare un processo che il 90% di aziende italiane ha intenzione di mantenere e di cui milioni di lavoratori potranno beneficiare. 

Il mondo del lavoro tradizionalmente conosciuto sta subendo infatti un cambio radicale dovuto all’aumento di consapevolezza da parte del dipendente sempre meno disposto ad accettare condizioni lavorative alienanti e stressanti. Il fenomeno delle dimissioni generali alimentato inevitabilmente dal periodo pandemico non riguarda infatti il solo mercato statunitense, ma sta investendo anche l’Europa e l’Italia, dove nell’ultimo report del ministero del Lavoro si contano due milioni di abbandoni volontari, il 33% in più rispetto all’anno precedente. Circa la metà di questi sono rappresentati da giovani. In Francia i dati più recenti sul numero di dimissioni lavorative registrano livelli visti solo nel 2007. La priorità data al bilanciamento della propria vita privata e alla realizzazione personale è anche qui citata tra le cause principali del fenomeno. Mentre il numero di lavoratori che denunciano ritmi insostenibili e burnout lavorativo aumenta in tutti i Paesi europei, i recenti esperimenti di alcune aziende giapponesi e islandesi basati sulla settimana lavorativa a quattro giorni dimostrano l’enorme impatto che la tutela del benessere individuale ha sulla produttività. Numerosi studi accademici hanno certificato l’esistenza di una soglia di ore lavorative settimanali oltre la quale non è possibile aumentare significativamente la produzione; lavorare meno, specialmente nel contesto odierno, può quindi condurre a livelli di soddisfazione e capacità collaborative che concorrono a maggiori livelli di produttività. 

Il filo rosso che lega burnout, dimissioni e smart working è quindi l’urgenza sentita dai lavoratori, in particolare i più giovani, di trovare e collocare se stessi in una dimensione alternativa al lavoro a tutti i costi, lasciando spazio alle proprie aspirazioni individuali e al diritto alla disconnessione. Il fenomeno delle grandi dimissioni, tuttavia, è strettamente dipendente dalla congiuntura economica e dalle condizioni occupazionali attuali: la dinamicità del mercato del lavoro che permette a milioni di dipendenti di ricollocarsi in funzione delle proprie necessità è una prerogativa dovuta ai bassi livelli di disoccupazione e al conseguente bisogno di organico in un periodo di crescita economica che coincide con l’uscita dall’emergenza sanitaria. 

Se le ragioni principali che guidano la crescita del fenomeno delle dimissioni sono state ampiamente discusse e motivate nell’arco dell’ultimo anno, resta ancora da chiarire come tale fenomeno progredirà in un futuro prossimo dominato da una probabile maggiore precarietà economica e lavorativa. Gli scenari recessivi causati dalle tensioni commerciali e politiche tra Oriente e Occidente potrebbero portare in Europa una nuova crisi occupazionale. In tal caso la priorità di molti lavoratori diventerà il mantenimento del posto di lavoro e un possibile ritorno a quella che Heidegger in Essere e tempo definì “caduta”, la tendenza dell’essere umano a perdersi, precipitando, nell’inautenticità del lavoro forzoso e fine a se stesso. La soluzione coincide con ciò che durante la crisi sanitaria fu il problema, ovvero l’impossibilità di adeguarsi alle tradizionali convenzioni lavorative sfociata in una visione più ampia e flessibile delle modalità di lavoro. Quello che fu un impedimento si è dimostrato poi essere l’acceleratore di un aumento di produzione reso possibile dal superamento della dicotomia casa ufficio, luoghi che oggi non dovrebbero alimentare un contrasto, ma concorrere nella realizzazione personale di tutti i lavoratori.

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