Poche settimane fa l’Associazione Italiana Direzione Personale (ADPI) ha pubblicato i dati secondo cui le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende. I settori maggiormente coinvolti sono quello Informatico e Digitale (32%), Produzione (28%) e Marketing e Commerciale (27%). A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto le persone nella fascia d’età compresa fra i 26 e i 35 anni, che costituisce il 70% del campione analizzato; perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Questa tendenza, che ha colto particolarmente di sorpresa le imprese coinvolte, viene ricondotta a tre fattori principali: la ripresa del mercato, la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di trovare altrove un miglior equilibrio fra vita privata e lavoro. Da questi dati emerge in modo lampante lo scarto profondo fra generazioni sempre più distanti sotto tanti punti di vista: da un lato i figli degli anni Sessanta, che ancora occupano le posizioni di vertice all’interno delle aziende e dall’altro i millennial e la Gen Z.
In ottica di inserimento sociale il lavoro è ancora uno dei fattori principali, se non il più importante: questo significa che il modo in cui la società ci guarda e di conseguenza noi ci guardiamo, dipende in larga misura dal ruolo che ricopriamo all’interno del mercato. Ne sono la prova il rispetto e il timore che spesso si provano di fronte a manager, professori universitari o primari e, sul versante opposto, l’aria di sufficienza con cui ancora purtroppo si guarda a professioni poco qualificate, considerate un ripiego per alcuni e l’ultima spiaggia per altri. A tal proposito si pensi per esempio alla logica dell’almeno crea posti di lavoro, spesso utilizzata per giustificare impieghi con forme contrattuali alle quali nessuno ambirebbe, che rasentano lo schiavismo.
La concezione del lavoro come totalizzante è profondamente radicata nella cultura del Paese e rappresenta lo snodo da cui partire per guardare al rapporto fra due visioni del mondo che sembrano incompatibili. Su di essa si è costruito gran parte del successo imprenditoriale italiano e per questo è stata completamente introiettata da coloro che da trenta o quarant’anni hanno interamente consacrato la propria vita alla causa del lavoro. Se così non fosse ci si chiederebbe come fosse possibile altrimenti affrontare orari estenuanti, moli di lavoro che potrebbero occupare più persone, assenza totale di pause e in molti casi reticenza verso il pensionamento – con tutti i danni sulla salute fisica e psicologica che ne conseguono. Questo atteggiamento, che spesso riguarda chi riveste ruoli dirigenziali, non risparmia coloro che occupano posizioni subordinate. Alla base un’etica del lavoro tipicamente novecentesca per cui è nel lavoro che si dà interamente l’esistenza individuale, tutto il resto appare come surplus, vezzo (per non dire vizio), attività complementare che rientra nella categoria degli hobby, dei passatempi e quindi automaticamente in ciò che è di meno valore. Il problema che si pone è che in questa visione del lavoro – alla luce della quale i giovani che non le vogliono sottostare vengono accusati di essere volubili, irresponsabili e poco appassionati – è il frutto di una precisa cultura e società, senza ombra di dubbio in crisi.
Se si analizzano le cause che lo stesso report ADPI individua come responsabili delle dimissioni volontarie, si nota subito come sia la questione economica sia il maggior equilibrio fra vita privata e ufficio siano due esigenze che cozzano con l’immaginario tradizionale del lavoro. Nel primo caso perché la pretesa di stipendi adeguati, dovuta alla consapevolezza che si stia scambiando il proprio tempo di vita per una somma di denaro, mette in discussione il passaggio, da sempre considerato obbligato, della gavetta. Da qui l’accusa di impazienza: agli occhi dell’imprenditore medio, i giovani “vogliono tutto e subito”, non sarebbero in grado di aspettare e rispettare il percorso che è toccato ad altri prima di loro. Nel secondo caso, la volontà di difendere la propria sfera privata, o quanto meno di costruirsene una, si scontra con il primato del lavoro, mai messo in discussione da chi ha sempre visto in esso il proprio unico luogo di legittimazione esistenziale.
Se quindi la totale devozione al lavoro non è più scontata e la fabbrica o l’ufficio non sono più il solo luogo in cui edificare se stessi, e al contempo il sistema occupazionale resta invariato, la sola via di fuga diventa il cambio di direzione. Un movimento perpetuo alla ricerca del luogo che più riesce a tenere insieme quegli aspetti del proprio essere che esulano dal lavoro in senso stretto. Questo può tradursi sia nella rivendicazione di un adeguato equilibrio tra vita privata e lavoro, che nella ricerca di contesti lavorativi destrutturati, dove i network organizzativi soppiantano le antiquate gerarchie aziendali.
Modelli e aspettative distanti che portano a un’incomprensione spesso strutturale. Le categorie con le quali le due generazioni in campo guardano il mondo sembrano infatti incompatibili: la sovrapposizione fra l’occupazione e l’identità non appartiene più alla nuova generazione di lavoratori, che non ha alcuna intenzione di rimandare la propria esistenza “a dopo” e nel caso in cui sia costretta a farlo, esige quantomeno di essere adeguatamente “rimborsata”. L’occupazione rappresenta oggi un tema prioritario e sarebbe inutile archiviarlo sulla base di letture semplicistiche e accuse reciproche. L’incomunicabilità che caratterizza questo rapporto intergenerazionale su un tema caldo come il lavoro non può però essere liquidata rapidamente.
Bertrand De Jouvenel, filosofo, politico ed economista francese, sosteneva, nel suo saggio La teoria pura della politica, che presi due soggetti A e B, il primo possa esercitare il proprio potere sul secondo solo se quest’ultimo glielo permette, per quanto costoso possa essere per B opporre resistenza alle pressioni di A. “L’uomo che parla agli altri uomini e li conduce all’azione divisata: ecco l’uomo che fa la storia. Sì, d’accordo. Ma ve n’è un altro che decide se il nostro eroe farà veramente la storia: è l’uomo al quale egli parla”. Questo passaggio può essere utile per comprendere che se da un lato la domanda di forza lavoro è ancora in larga misura nelle mani di chi si ostina a perpetuare un modello superato di organizzazione lavorativa, dall’altro chi può rispondere a questa domanda oggi non sembra avere intenzione di cedere alle condizioni che quel modello implica.
Nessuno, tuttavia, mette in dubbio l’importanza del lavoro come dimensione strutturale di ogni contesto sociale, alla cui costruzione ciascuno può partecipare anche attraverso il lavoro salariato. Per questa ragione l’esito dello scontro non può essere un aut-aut tra il lavoro nella sua forma novecentesca, ormai esaurita o la disoccupazione: sarebbe un risultato evidentemente svantaggioso per entrambe le parti. Un primo passo potrebbe essere iniziare a comprendere situazioni diverse dalla propria, cambiando di conseguenza la narrazione sui giovani indecisi, le cui scelte poco ponderate apparirebbero sintomi di immaturità, e domandarsi come un luogo di lavoro possa, oggi, essere totalmente attrattivo. Si può essere disposti a percepire uno stipendio più basso se questo implica una maggiore aderenza fra il senso del lavoro che si svolge e la direzione che si vuole dare alla propria vita, ma questo non significa che si sia disposti ad accettare qualunque somma a prescindere.
Il cambio radicale di prospettiva che offrono i nuovi lavoratori rappresenta un punto di rottura e, come spesso accade, gli avvenimenti storici possono essere considerati in almeno due modi diversi: o come fonte di crisi, ostinandosi quindi a proseguire controvento, sempre nella stessa direzione; oppure come momenti di svolta, occasioni per cambiare rotta, rivedere il percorso e scoprire che la destinazione, e quindi la rotta, non sono immutabili.