Altro che choosy: i giovani italiani sono gli unici in Ue ad avere stipendi inferiori a 30 anni fa - THE VISION
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C’è un meme che descrive alla perfezione il modo in cui si sente la maggior parte dei venti-trentenni di oggi: in alto vediamo i nostri genitori che alla nostra stessa età comprano una seconda casa in cui sperano ci sia spazio per entrambe le loro auto; in basso noi, che dopo aver comprato una confezione di pane e una di latte, dubitiamo che le nostre finanze saranno mai in grado di risollevarsi da questa spesa. Il meme racconta purtroppo una realtà molto comune: la nostra generazione, infatti, non può nemmeno lontanamente immaginare di riuscire a possedere la stessa ricchezza di quella dei nostri genitori e ancor meno – sempre in potenza – quella dei nostri nonni alla nostra età. In effetti, i millennial non solo sono una delle generazioni più povere della storia, ma guadagnano molto meno rispetto ai loro predecessori, ribaltando il meccanismo di crescita che fino ad ora è sempre stato presente. In Italia, poi, la situazione è ancora più preoccupante: i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro capite più basso della storia italiana e un quarantenne di oggi possiede un reddito annuo di 10mila euro inferiore rispetto a un quarantenne nato tra il 1946 e il 1965. 

Questi dati, anziché allarmare la classe politica e l’opinione pubblica, sono però accompagnati da una retorica colpevolizzante nei confronti delle nuove generazioni, accusate a più riprese di essere pigre, choosy e bamboccione. L’ultimo capitolo della saga sono le numerose interviste agli imprenditori – specie nel settore della ristorazione – che non trovano più nessuno da assumere “perché i giovani dopo il Covid hanno perso la voglia di lavorare”. Non solo ci si dovrebbe chiedere chi vuole lavorare per uno stipendio da fame, con orari e turni lunghissimi e senza alcuna tutela contrattuale, ma anche come sia possibile che in Italia i salari non siano nemmeno rimasti uguali, ma addirittura diminuiti rispetto al 1990. Questo è il risultato di una ricerca di OpenPolis nei Paesi europei Ocse, che ha rivelato come la nostra sia l’unica nazione che tra il 1990 e il 2020 che ha avuto una decrescita nei salari annuali medi, pari al -2,9%. Un risultato imbarazzante se confrontato con la Spagna, al penultimo posto, che è cresciuta soltanto del 6,2%, ma almeno è cresciuta. Senza considerare i Paesi baltici, che hanno visto i propri salari aumentare più del 200% in trent’anni a seguito della disgregazione dell’Urss, i Paesi culturalmente e storicamente a noi più vicini hanno aumentato i propri stipendi dal 13,7%, per quanto riguarda il Portogallo, all’85,5%, l’Irlanda, per una media del +74%.

I ricercatori in economia Marta e Simone Fana hanno individuato proprio gli anni Novanta come il decennio in cui è iniziato il declino dei salari in Italia. Nel 1992, dopo che era già stata tagliata nel 1984 da Craxi con il decreto di San Valentino, viene abolita definitivamente la scala mobile, che consentiva di adeguare i salari al costo della vita. Gli stipendi vengono bloccati. L’inflazione diminuisce, ma non per beni come le case, i trasporti pubblici e gli alimentari. Con la legge Tremonti del 1994, le imprese ricevono vantaggi fiscali per gli investimenti in nuovi macchinari e attrezzature, senza che tuttavia avvenga un effettivo ricircolo di questi redditi. Nel frattempo, il lavoro diventa sempre più precario: contratti a termine, appalti e subappalti, false partite Iva. Se nel 1995 erano un milione i lavoratori a tempo determinato (il 7% del totale degli occupati), nel 2018 sono diventati tre (il 17%): quota ben al di sopra della media europea. Nel 2003, il d.lgs. 276/2003 abroga una legge del 1960 che aveva introdotto il “divieto di interposizione di manodopera”: eliminato questo divieto, è ora possibile che un soggetto terzo “affitti” i propri dipendenti a un’altra azienda dietro compenso. Con il sistema del lavoro in somministrazione, ancor più liberalizzato dal Jobs Act del 2015, non solo gli stipendi restano bassi, ma il lavoratore non ha diritto a garanzie come la cassa integrazione. In molti casi, dietro questa rete di appalti si nascondono storie di caporalato e sfruttamento.

Queste strategie non sono frutto del caso, ma della precisa volontà di mantenere basso il costo del lavoro per aumentare i profitti di pochi, con conseguenze disastrose per la qualità della vita, la progettualità e spesso anche la dignità di chi lavora. Così, oggi, l’Italia è sesta in Europa per numero di working poor, i lavoratori poveri: nella fascia di chi guadagna dai 550 ai 820 euro al mese – quasi un milione e mezzo di persone – si stima che il 26% potrebbe non avere denaro sufficiente per pagare il riscaldamento. Ma l’estrattivismo sui salari riguarda ormai tutti i settori della produzione: i laureati nati negli anni Settanta percepiscono 35mila euro in meno rispetto ai laureati nati nel decennio precedente e il divario tra il salario dei diplomati e di chi ha conseguito un titolo superiore si sta restringendo: oggi chi è in possesso di una laurea triennale è retribuito appena il 2,3% in più rispetto a un diplomato.

Al di là dei numeri, la stagnazione degli stipendi porta con sé conseguenze importanti per i progetti di vita a lungo termine. Basta dare uno sguardo al Rapporto annuale dell’Istat per rendersene conto: dal 2008 al 2020, 355mila giovani tra i 25 e i 34 anni – circa il 5,9% del totale – si sono trasferiti all’estero, la maggior parte dei quali con un basso livello di istruzione o, al contrario, con un alto livello di specializzazione. Solo il 2-3% rientrerà in Italia. Per quanto riguarda la prospettiva di costruire una famiglia, anche il 2020 ha visto un record negativo di nascite, cosa per la quale sistematicamente si punta il dito contro le donne che non vorrebbero fare più figli perché concentrate troppo sulla carriera. In realtà, come sottolineava il Rapporto dello scorso anno, il numero di figli desiderato è più alto di quello reale e sono solo 500mila gli individui tra i 18 e i 49 anni che affermano di non volerne. Per l’Istat, è proprio l’incertezza economica il primo ostacolo alla fecondità e il fatto che il calo nel 2020 abbia interessato soprattutto le donne con un basso livello di istruzione, che quindi statisticamente svolgono i lavori più penalizzati durante la pandemia, dimostra come le condizioni di lavoro siano un forte deterrente alle nuove nascite. Uno stipendio che consente di arrivare a malapena a fine mese significa non avere la possibilità di mettere qualcosa da parte per il futuro, specialmente se si vive in città come Roma o Milano dove l’affitto da solo si prende la maggior porzione delle entrate mensili: a un anno dal titolo triennale, un neolaureato guadagna 1.270 euro al mese; un bilocale nel capoluogo lombardo va dai 650 nelle zone meno centrali a 1.700. 

Mantenere i salari bassi non porta ad alcun beneficio economico su larga scala, se non il contenimento dei costi del lavoro che avvantaggia i profitti di pochi. E infatti il divario tra ricchi e poveri si allarga, con i benestanti che si arricchiscono sempre di più e vedono mantenersi intatti i propri patrimoni e gli altri che non arrivano alla fine del mese e vivono per forza di cose alla giornata. Per uscire da questo scenario, però, le soluzioni non mancherebbero: tassare le multinazionali, tassare i miliardari (soluzione appoggiata persino dal Fondo monetario internazionale, di certo non la più “socialista” delle istituzioni) e introdurre il salario minimo – di cui l’Italia è priva insieme ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. Secondo l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, un salario minimo lordo di 9 euro all’ora interesserebbe il 21,2% dei lavoratori in Italia e in particolare i giovani sotto i 29 anni e le donne, e per le stime dell’Inps porterebbe un gettito di 3 miliardi di euro. Dove è stato introdotto, il salario minimo ha anche contribuito a ridurre il gender pay gap, cioè la differenza di retribuzione tra uomini e donne.

La ricchezza di un Paese non si misura solo dai profitti delle imprese, ma anche dal benessere e dalla serenità dei suoi cittadini, che quando lavorano non dovrebbero temere di non arrivare a fine mese. Se l’ago della bilancia comincia a pendere troppo a favore delle prime, per l’Italia non può esserci futuro.

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