Di fronte a un contenzioso tra due sole persone solitamente si usano “convenzioni sociali” che portano a una discussione più o meno accesa, a una presa di posizione o comunque a un’interazione. Più sale il numero degli individui coinvolti, però, più si innesca un meccanismo di dispersione. Soprattutto online, come può essere un litigio su un gruppo Whatsapp con un’impellenza che necessiti di una soluzione. C’è chi attende che siano gli altri a fare la prima mossa, spesso ci si nasconde perché “tanto se la sbrigheranno loro”.
“Private e-mail requests and the diffusion of responsibility” è uno studio realizzato dai ricercatori Greg Barron e Eldad Yechiam dove questo fenomeno viene spiegato traslandolo sulle mail: quando vengono mandate a più persone, infatti, secondo la ricerca cala sensibilmente la responsabilità individuale e, di conseguenza, sia la percentuale di risposte sia la lunghezza di queste ultime, se paragonate alle mail inviate personalmente a una singola persona. Può sembrare un’osservazione del tutto scontata o irrilevante, ma in realtà lascia emergere un tema molto più alto, quello della diffusione di responsabilità, un fenomeno che unisce psicologia e sociologia e che dai messaggini su una chat può arrivare alle giustificazioni usate dai nazisti durante il processo di Norimberga.
“Lo facevano tutti”, “Stavamo soltanto eseguendo gli ordini”. Queste sono tra le frasi più utilizzate durante la difesa legale a Norimberga. I soldati incolpavano i generali, i generali i gerarchi, i gerarchi l’astrattismo dell’ideologia nazista. L’elemento in comune era la deresponsabilizzazione. In quel caso riguardava un’azione, ma spesso la diffusione di responsabilità è associata al suo contrario, ovvero all’immobilismo che impedisce di agire. Più aumenta il numero di persone intorno a noi, più tendiamo a delegare e a non sentirci direttamente responsabili di fronte a qualsiasi sorta di evento a cui stiamo assistendo, soprattutto se si aggiunge la componente dell’anonimato. Già nel 1968 gli psicologi John Darley e Bibb Latané condussero un esperimento a riguardo. Degli studenti universitari furono invitati a tenere una discussione sulla vita nella loro facoltà. Non lo fecero di presenza, ma attraverso un citofono e con l’anonimato. Darley e Latané crearono due scenari: una conversazione a due e una di gruppo. Un complice fingeva di avere una crisi epilettica durante la discussione, e i risultati finali furono eloquenti: con un unico interlocutore, nell’85% dei casi il soggetto chiamò i soccorsi e si attivò per aiutare la persona in difficoltà, mentre nelle discussioni di gruppo lo fece soltanto il 31% dei partecipanti all’esperimento, con il restante gruppo in attesa che fossero gli altri ad agire e ad assumersi la responsabilità.
La diffusione di responsabilità entra in un macrogruppo di fenomeni riconducibili alla stessa matrice di passività e deresponsabilizzazione. Se per natura è strettamente imparentato con l’effetto spettatore – bystander effect – è collegato per vie traverse anche all’effetto bandwagon e all’ignoranza pluralistica, in quanto la dinamica del branco è comunque determinante per indirizzare il pensiero collettivo fino a raggiungere uno stato di inerzia, una pigrizia morale che può essere riscontrabile in un gesto – o nella sua assenza – o anche un’ideologia – o, anche in questo caso, nel suo contrario. Per cui la diffusione di responsabilità influisce anche su un risultato elettorale, su una battaglia civile, sull’accettazione o meno di una piaga della società. Ho spesso riflettuto sulla declinazione della protesta nel terzo millennio, quasi esclusivamente collegata a lamentele tramite i social. L’indignazione non ha subito mutamenti, ma cambiando il mezzo ha modificato la sua traiettoria.
Lamentarsi, per esempio, della malapolitica, delle decisioni dei nostri rappresentanti o di qualsiasi altro argomento è doveroso, ma spesso deresponsabilizza il cittadino usando come parafulmini altre categorie, che siano politici, allenatori di calcio o personalità pubbliche. In tal modo la responsabilità individuale e di gruppo diventa ondivaga, si diluisce senza un reale target per arrivare, infine, a meccanismi di assoluzione di massa. “È colpa degli altri” se un’elezione ha portato al potere personaggi inqualificabili, ma magari a lamentarsi è la stessa persona che ha rimpolpato il partito degli astensionisti. E, inevitabilmente, l’astensione è il più grande atto di deresponsabilizzazione politica, a prescindere da quali siano le motivazioni. A volte può essere pilatesco anche il voto in sé quando viene dato non per una reale aderenza ai programmi e agli ideali di un candidato, ma perché è il nome di spicco e la maggioranza va in quella direzione. Seguire gli altri si trasforma quindi da un lato in un tentativo di accettazione sociale, dall’altro nella comodità del gregge. “Se tutti vanno in quella direzione deve esserci un motivo, dunque ci vado pure io”.
Per lo stesso motivo i social sono ormai impostati su questa logica e l’algoritmo premia il numero più del contenuto. Se un influencer ha un numero enorme di follower viene la curiosità di capirne i motivi e di non “rimanerne fuori”. Lo stesso può valere su una piattaforma di streaming quando una live ha parecchi spettatori e l’istinto è proprio quello di aprirla per far parte di qualcosa, per non perdersi l’evento. Spesso non si ha nessun interesse per l’influencer o la live in questione, ma il timore di venire esclusi crea un interesse artificioso e artificiale. In questo è molto simile alla scelta di un politico da votare: in qualche modo ci si fida della massa proprio perché ci toglie una fetta di responsabilità, sia nel supporto che nell’avversione. Tornando alle proteste sul web, infatti, si nota come il processo si sia ormai stabilizzato sull’armatevi-e-partite. Non esiste una statistica in merito, ma è facilmente ipotizzabile che solo una percentuale irrisoria dei paladini delle giuste cause sui social vada in piazza per portare avanti le sue battaglie, magari prendendo manganellate dalla polizia. Questo perché si attende che siano altri a farlo, come se bastasse il post polemico su Facebook, una storia con le unghie affilate su Instagram e poi fine dei nostri compiti.
Pigrizia morale, come dicevamo. Lasciare che siano gli altri a decidere per noi è il trionfo dell’indolenza, e a quanto pare è un esercizio praticato dai nostri stessi rappresentanti. Negli ultimi quindici anni ben due volte la nostra classe politica ha rifiutato di assumersi le responsabilità, delegando ai tecnici di fronte alle scelte più impopolari, alle riforme create per mettere una pezza. Eppure, molti cittadini non hanno polemizzato per questa fuga dalle responsabilità, ma hanno semmai criticato aspramente i tecnici venuti in soccorso per non far collassare l’intero Paese. Critiche che possono essere lecite in base alle proprie visioni politiche, mentre sono intollerabili i dirottamenti delle colpe e l’incapacità di considerare vile, professionalmente meschina, la deresponsabilizzazione della classe dirigente. Anche perché poi i tecnici sono usciti di scena, mentre i politici sono ancora a galla. La deresponsabilizzazione è molto spesso figlia della disillusione, subentra quando l’individuo è convinto di non avere a prescindere potere sulle scelte della società e sul suo stesso destino. Questo però anestetizza l’impegno sociale e civile e sminuisce il proprio ruolo nel mondo.
Sono le nostre azioni a determinare il nostro contributo nella società in cui viviamo, e se la responsabilità viene relegata a orpello, a parola da cui fuggire, il conseguente disimpegno crea un circolo di eventi che portano realmente l’individuo a non poter controllare il proprio destino. Se poi diventa un’abitudine di massa, allora non vale nemmeno parlare di politica e di antipolitica, di rivoluzione e di status quo, di incendiari e di pompieri: tanto rinunceremo tutti al diritto di scelta, consegnandoci nelle mani degli altri, non più creature immaginarie di una massa senza volto, ma nostri simili che possibilmente seguono lo stesso iter di deresponsabilizzazione. E così anche il non scegliere diventa una scelta. Anzi, la scelta. È dunque una responsabilità a tutti gli effetti; poi non lamentiamoci se sono gli altri a decidere per noi.