Risale al quattro marzo – quindi, ormai, a più di due mesi fa – il decreto firmato da Giuseppe Conte che sanciva la chiusura delle scuole fino alla metà del mese. L’Italia non immaginava nemmeno la possibilità di un completo lockdown, né l’opinione pubblica sembrava aver compreso di essere sull’orlo del momento più delicato della recente storia nazionale. Anche l’interruzione dell’attività didattica, così, era avvertita come un fastidio passeggero o una breve pausa. Di certo non ci si immaginava che quelli trascorsi fossero gli ultimi giorni dell’anno scolastico passati effettivamente tra i banchi, e sia docenti che studenti guardavano agli sviluppi quotidiani restando in attesa, immaginando un ritorno in classe più o meno celere. Il progredire dell’epidemia, l’aggravarsi dell’emergenza e l’incredibile innalzamento della curva dei contagi hanno spazzato via con molta facilità quelle speranze, rendendo necessario trovare altre vie per la didattica, che sostituissero quella in presenza.
Già dai primi giorni gli insegnanti più intraprendenti si sono lanciati in esperimenti di didattica a distanza. Per le comunicazioni ufficiali e le linee guida sul da farsi invece si è dovuto aspettare il 17 marzo – dato che il decreto prevedeva la sospensione inizialmente fino al 15. Preso atto dell’impossibilità di tornare tra i banchi, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato una nota in cui dava le prime indicazioni sulle modalità d’insegnamento online e spiegava ai docenti come muoversi in un territorio che risultava nuovo per tutte le parti in causa e che richiedeva un’inevitabile dose di adattamento. Già dai primi momenti sono infatti apparsi criticità e problemi in apparenza esclusivamente tecnici, ma che a ben vedere rappresentano i punti deboli del nostro sistema scolastico. La didattica a distanza ha innanzitutto portato alla luce storture sociali ormai radicate di cui bisognerà tenere conto ora che ci si avvia a una totale riformulazione delle modalità d’insegnamento per gestire il ritorno – per quanto parziale – in classe.
Mai come in questo periodo l’opinione pubblica si è interessata alla scuola italiana e alle situazioni di ingiustizia sociale a essa connesse. Spesso sono servite storie emblematiche che facessero da volano, ma è stata finalmente posta l’attenzione sulle disuguaglianze che finiscono per interessare inevitabilmente anche il nostro sistema scolastico, di cui – a dirla tutta – c’era consapevolezza da tempo. Con la didattica a distanza certe disparità si sono solo fatte più acute, proprio perché per accedere ai servizi scolastici è necessaria l’intermediazione di strumenti elettronici, non ugualmente disponibili, costringendo l’istruzione a fare i conti con il digital divide, che ha come risultato di vedere non sempre garantito il diritto allo studio di ciascuno.
Il 6 aprile l’Istat ha fornito numeri precisi rispetto a queste tematiche in un rapporto che considera sia la disponibilità di computer e tablet per bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni, sia gli spazi in casa che, per gli studenti in quarantena, sono diventati anche i nuovi spazi dell’istruzione obbligatoria. Secondo lo studio “il 12,3% dei ragazzi tra 6 e 17 anni non ha un computer o un tablet a casa” e solo il 6,1% dei ragazzi vive in famiglie in cui, per ogni componente, è presente almeno un dispositivo. Così, soprattutto in famiglie con più figli o con un genitore che fa smart working, la didattica a distanza s’inceppa. Anche questi dati, già di per sé esemplificativi, nascondono disuguaglianze al loro interno in base alle aree prese in considerazione e al livello d’istruzione delle famiglie dei ragazzi. La percentuale di studenti che non ha computer o tablet a casa, infatti, sale a circa il 20% al Sud e, al contrario, scende al 7,7% nelle famiglie in cui almeno un componente è laureato. Queste disparità esistevano già prima dell’emergenza, che le ha fatte semplicemente emergere.
Se l’articolo 3 della nostra Costituzione sancisce che sia lo Stato a dover rimuovere ogni ostacolo all’uguaglianza dei cittadini, si capisce quanto sia necessario e doveroso un intervento in questo ambito. E c’è di più: pensare che questa disparità sociale si manifesti solo ora, significa dover riconoscere che la classe politica odierna ha del tutto perso il contatto con il Paese: non ha contezza né delle disuguaglianze che interessano l’intero territorio, né della natura delle differenze fra le varie classi sociali, di cui la pandemia ha calcato i confini.
L’immagine dipinta non sembra troppo distante rispetto a quella attaccata da Don Milani in Lettera a una professoressa, il famoso libro del 1967 in cui il parroco di Barbiana, forte dell’esperienza educativa a tratti rivoluzionaria portata avanti nella scuola del piccolo borgo, criticava il sistema scolastico italiano e le sue ingiustizie. Con quell’opera estremamente all’avanguardia veniva messo a nudo, col supporto di raccolte statistiche, come l’istruzione italiana tradisse le direttive della Carta Costituzionale, non solo non appianando le differenze tra studenti più ricchi e più poveri, ma addirittura rimarcandole con più forza. A distanza di cinquant’anni, anche se la situazione è cambiata, e certe dinamiche permangono e in questo periodo saltano agli occhi di tutti.
L’accusa principale che Don Milani muoveva alla scuola, secondo una definizione poi divenuta celebre, era quella di “Far parti uguali fra disuguali”. Le osservazioni di Don Milani erano strettamente legate al contesto di quel tempo, ma alcune delle sue considerazioni trovano ancora riscontro nella scuola attuale. Sicuramente, gli alunni che già da prima erano più svantaggiati, a queste condizioni finiscono per esserlo ancora di più.. In questo senso un altro tassello di un mosaico altamente complicato lo aggiunge lo stesso rapporto Istat prima citato, secondo il quale il 41,9% dei minori vive in condizioni di sovraffollamento abitativo. E questo è solo uno degli aspetti che possono influenzare la produttività dei ragazzi, sottratti all’ambiente sicuro delle scuole e momentaneamente costretti alla diversità delle loro situazioni familiari.
È chiaro che il ministero debba fornire risposte pratiche alla situazione, sia per gli insegnanti che per gli studenti e le loro famiglie, ma è importante tenere bene a mente che la scuola, prima di tutto non è un’azienda e non può essere trattata come tale, è un’istituzione che prima di valutare secondo criteri che non tengono conto delle disparità tra studenti, dovrebbe occuparsi in primis della loro formazione, e del fatto che sia uguale per tutti, perché l’istruzione oltre a essere un obbligo è un diritto.
Un indicatore importante per misurare lo stato di salute della nostra scuola lo fornisce il rapporto Eurostat sugli investimenti nell’istruzione dei vari stati europei: i numeri sono impietosi sia se presi in assoluto che in percentuale. Nel 2018 l’Italia ha speso in questo settore il 4% del suo PIL; peggio, in Europa, hanno fatto solo Romania, Grecia, Irlanda e Bulgaria. Inoltre, i fondi destinati alla scuola sono stati tagliati di circa tre miliardi dal 2009. Un Paese che sostiene in maniera così esigua la propria istruzione pubblica non fa altro che aumentare le disuguaglianze all’interno di essa, tra chi ha già da sé i mezzi per un’educazione migliore e chi non li ha. Qualsiasi tentativo di ricostruzione e rielaborazione del sistema scolastico – come quelli che si stanno avviando in questo periodo per pensare a un rientro in classe a settembre – deve necessariamente partire da qui.
Aumentare semplicemente i fondi, però, non basta. Ciò che è doveroso, infatti, è far sì che la scuola torni a essere un luogo di formazione e non di competizione, che formi cittadini prima che lavoratori – e, a questo proposito, abolire l’alternanza scuola-lavoro dovrebbe essere un obbligo. Spinta dall’assillo ingannevole della meritocrazia, la scuola italiana ha perso per strada i ragazzi più deboli, con un tasso di abbandono scolastico del 14,5%, il quartultimo tra i Paesi europei. La giustizia sociale e l’uguaglianza, soprattutto in termini di istruzione, dovrebbe essere uno dei principi fondamentali su cui si basa qualsiasi democrazia. Ora che il sistema scolastico si avvia a una fase di riformulazione, sarebbe utile rendersi conto di come un Paese sano e, soprattutto, libero si basi su una scuola che mette tutti nelle stesse condizioni, applicando peraltro ciò che è chiaramente scritto nella propria Costituzione.