Nel 2015 l’allora premier Matteo Renzi commentava con un “missione compiuta” la sua firma sull’accordo con la società statunitense Whirlpool che scongiurava future chiusure di stabilimenti ed esuberi al loro interno. L’azienda di elettrodomestici aveva minacciato di chiudere gli impianti di None, Carinaro e Albacina, mettendo a rischio l’occupazione di 1350 impiegati. L’accordo tra azienda, sindacati e governo aveva allontanato questa eventualità, ma nel corso del 2017 venne aperto un nuovo dossier sullo stabilimento di Riva di Chieri della Embraco, controllata del gruppo Whirlpool. Il ministro dello Sviluppo economico in carica, Carlo Calenda, definì “gentaglia” i dirigenti della Embraco che puntavano a chiudere il sito produttivo e a licenziare i circa 500 dipendenti. “La sinistra ci ha traditi, ora speriamo nei Cinque Stelle”, raccontavano nel febbraio del 2018 gli operai ai giornali, mentre Di Maio e Di Battista si presentavano a Riva di Chieri per incontrarli, in vista delle elezioni del 4 marzo. La vicenda si concluse con un piano di reindustrializzazione facente capo alla Ventures Srl che permise il reinserimento lavorativo dei dipendenti dello stabilimento. Meno di un anno dopo, però, la Whirlpool sta attraversando una nuova crisi.
Il 31 maggio scorso è stata resa nota la volontà del gruppo di chiudere e mettere in vendita il suo stabilimento di Napoli. A rischiare il posto di lavoro sono 430 persone, che salgono a 1400 con l’indotto. La decisione ha preso alla sprovvista sia i dipendenti che il ministro del Lavoro Di Maio, in luce di quanto accaduto l’autunno scorso. Nell’ottobre 2018, Whirlpool aveva dichiarato che il mancato raggiungimento degli obiettivi del piano 2015-2018 apriva uno scenario molto simile a quello poi risolto grazie all’accordo con il governo Renzi. I primi mesi del 2018 confermavano i dati negativi per la società, con un rosso di 657 milioni di euro e vari stabilimenti in crisi, come quello dei frigoriferi e forni da incasso di Cassinetta che avrebbe dovuto produrre almeno 2,6 milioni di apparecchi l’anno per non essere in perdita, ma aveva ordinazioni per un milione di pezzi in meno. Di fronte a questo scenario, in molti temevano centinaia di esuberi e la delocalizzazione della produzione all’estero, in particolare in Polonia e Turchia.
Questa prospettiva era stata allontanata dall’intervento del ministro Di Maio. “Si è chiuso il tavolo che vedeva coinvolta l’azienda Whirlpool e siamo riusciti ad ottenere zero esuberi e un ritorno delle produzioni dalla Polonia all’Italia. RILOCALIZZIAMO, che bella parola!”, aveva scritto il 25 ottobre dell’anno scorso su Facebook. L’accordo tra Whirlpool e il governo prevedeva anche l’impegno dell’azienda a investire 250 milioni di euro nel triennio successivo nei suoi siti industriali italiani. In cambio lo Stato avrebbe sostenuto questi sforzi con nuovi incentivi, sgravi fiscali e ammortizzatori sociali. Nonostante il tono trionfale del suo post, i sindacati avevano subito ridimensionato l’operato del ministro: “Come su Ilva e Bekaert, anche ieri con Whirlpool il ministro Di Maio è corso al ministero per appendersi la medaglia e fare le foto di rito, prendendosi meriti di battaglie che non combatte, se non da spettatore, tra l’altro al fotofinish”, aveva dichiarato la segretaria nazionale della Fim-Cisl, Alessandra Damiani. “L’accordo sottoscritto è in continuità con quello siglato con il governo Renzi e con l’allora ministra Federica Guidi”.
Per i sindacati Di Maio si stava prendendo meriti non suoi, firmando un documento di cui non aveva seguito le negoziazioni. Il lavoro del suo ministero però non terminava con l’accordo, che era solo un punto di partenza. “Il ministero procederà nei prossimi mesi a monitorare costantemente le fasi di attuazione del piano industriale”, si scriveva nelle parti finali del testo. Un’operazione di checking molto importante che avrebbe dovuto vigilare sulla messa in pratica dei vari punti e, nel caso, fare pressioni in caso di inadempimenti. Le notizie degli ultimi giorni sulla Whirlpool, con la prospettiva di nuovi esuberi e delocalizzazioni, hanno di fatto cancellato un accordo firmato appena sei mesi fa.
Per Di Maio, l’azienda statunitense ha mancato di rispetto al ministero. Il vicepremier si è detto pronto a rimettere in discussione l’intero piano industriale e a verificare l’utilizzo che è stato fatto degli ammortizzatori sociali erogati fino a oggi. “Gli blocco quelli che gli stavamo per dare e gli tolgo quelli che gli abbiamo dato con alcuni strumenti che dovevano servire a creare più lavoro in più occasioni per le imprese”, ha dichiarato, dimostrando però di essere totalmente estraneo a una vertenza che avrebbe invece dovuto seguire in prima persona. Dal giorno della firma dell’accordo non risultano verbali di riunioni sul tavolo di crisi Whirlpool. “Nessuno dà a Di Maio responsabilità che non ha. Ma ne ha una gigantesca: non si siede ai tavoli di crisi. Nessuno segue più questi tavoli”, ha sostenuto il suo predecessore al ministero dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Un altro errore fatto da Di Maio all’inizio del suo incarico è stato rimuovere Giampiero Castano, l’addetto ministeriale con oltre 20 anni di esperienza nella gestione delle crisi aziendali, per sostituirlo con Giorgio Sorial, deputato del M5S non rieletto. Sorial non ha nessuna esperienza nel campo, come emerge dal caso Whirlpool. Una sconfitta per il governo che si aggiunge alla lunga lista degli ultimi mesi: dal dossier Pernigotti alla difficile situazione di Mercatone Uno, passando per Eurallumina e Alcoa, l’esecutivo ha fallito nel dare una svolta alle politiche di tutela dei lavoratori.
La mappa italiana delle vertenze in corso è un banco di prova molto duro per il governo, soprattutto se Di Maio intende replicare il modus operandi del suo primo anno al ministero. Se a gennaio i tavoli di crisi erano 138 oggi sono già 150, con 210mila posti di lavoro a rischio più i 70mila originati dall’indotto. Forse è anche per questo che negli ultimi giorni il ministro si mostra così agguerrito nei confronti degli statunitensi, avendo realizzato che serve un cambio di rotta per evitare una crisi del sistema industriale nazionale che appare sempre più imminente.
L’ultimatum di sette giorni dato all’azienda perché riveda la sua decisione, pena l’annullamento degli aiuti di Stato, è una mossa che arriva troppo tardi. La questione andava affrontata prima che diventasse di dominio pubblico, magari durante le trattative dove il ministro del Lavoro è spesso assente. Il taglio delle sovvenzioni, per quanto legittimo, rischia di innescare un pericoloso effetto a catena. Whirlpool accusa la crisi in tutti gli stabilimenti italiani e la perdita di ulteriori fondi rischierebbe di lasciare a casa centinaia se non migliaia di altri dipendenti, oltre a quelli di Napoli. Se il periodo nero dell’azienda Whirlpool non è responsabilità del governo, questo doveva però impegnarsi per evitare che diventasse un’emergenza. Il modus operandi sta facendo insorgere i sindacati: la Cisl Irpinia-Sannino sostiene che “non c’è rispetto istituzionale, né per i lavoratori, né per le leggi: il Mezzogiorno è ormai terra di conquista e non è più possibile fare a meno di una difesa del nostro tessuto imprenditoriale e produttivo“, mentre il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, ha sottolineato che questa situazione è frutto di “un ministero che non lavora più sulle vertenze ed è eternamente in campagna elettorale”.
Nella primavera del 2018 in cui i leader del M5S si facevano vedere in piazza con i dipendenti a rischio licenziamento della Embraco, controllata da Whirlpool, promettendo il cambiamento dopo anni di governi accusati di aver abbandonato i lavoratori. A un anno di distanza, il quadro produttivo nazionale è drammatico: rispetto al 2018, in aprile le richieste per la cassa integrazione straordinaria sono aumentate del 78% a livello nazionale, con i picchi della Liguria (282%), seguita da Campania (115%), Lazio (102%) e Puglia (82%). Nonostante il rischio di trasformare decine di crisi locali in una nazionale, il governo mantiene la sua strategia di azione: comparire per la firma di un accordo o durante le fasi più gravi di una crisi per rassicurare i cittadini, e poi tornare a presidiare temi elettorali più spendibili a livello mediatico. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa dello scorso 3 giugno, ha affermato che il clima di perenne campagna elettorale dei due partiti di governo sta minando l’efficacia dell’azione dell’esecutivo. A pagarne il prezzo sono più di 280mila persone che, dimenticate da chi dodici mesi fa prometteva il cambiamento, oggi rischiano di perdere il lavoro.