Fermi tutti: Luigi Di Maio si è accorto che Matteo Salvini è di destra. Un impeto di perspicacia con un ritardo di quasi un anno dalla nascita del loro governo. Il leader politico del M5S ha bisogno dei suoi tempi, d’altronde soltanto l’altro giorno, ospite da Fabio Fazio, ha ammesso di aver sbagliato a incontrare i gilet gialli, perché effettivamente sono violenti. Svegliatosi dal torpore invernale, la primavera di Di Maio è iniziata con la consapevolezza di governare con la destra. Verrebbe da dire “Buongiorno, principessa”.
In realtà Di Maio non è ingenuo, l’immagine del sempliciotto che cade dal pero è una forzatura narrativa autoimposta per mascherare l’inversione di rotta studiata a tavolino. Dopo le batoste alle regionali e i sondaggi che li vedono arrabattarsi per non farsi scavalcare – persino – dal Pd, qualcosa ai piani alti deve essere cambiato. I vertici dei Cinque Stelle si sono accorti che “fare la destra” non conviene più, perché gli elettori, se devono votare in quella direzione, preferiscono la destra vera (leggasi Lega). Hanno capito che salvare Salvini dal processo, assecondare i suoi rigurgiti nazionalisti e rendersi complici delle politiche da cowboy dell’entroterra texano tanto care al Carroccio non è stato un affare: ha compromesso la loro verginità ideologica – o vuoto ideologico, a seconda della prospettiva – e ha proiettato Salvini nell’empireo dei consensi e del potere. Così ora, per arginare il loro crollo e l’ascesa dell’alleato di governo, stanno mandando in scena la più goffa delle retromarce, per tentare di recuperare quegli elettori vagamente di sinistra che si vergognano un po’ di aver avallato un governo tanto conservatore.
Le prime avvisaglie della fase due di Di Maio si sono palesate in occasione del Congresso Mondiale delle Famiglie, quando ha definito quella presente a Verona “la destra di sfigati”. Peccato che fosse presente anche una senatrice del M5S, e che la querelle principale riguardasse il patrocinio, concesso dal ministero della Famiglia del suo governo, e il logo, accordato dal sottosegretario Vito Crimi, uno di loro. Da rappresentante della miglior tradizione democristiana, Di Maio non ha comunque rinunciato a tendere una mano a quella destra che aveva appena bollato come quella degli sfigati quando, sempre durante l’ospitata da Fazio, ha dichiarato: “Da cattolico dico che la famiglia è quella con una madre e un padre”. D’altronde, se nella scorsa legislatura non è passata la norma sulla stepchild adoption, la responsabilità è del M5S, come ha sottolineato la senatrice Monica Cirinnà, quindi non c’è da stupirsi di sentir pronunciare a Di Maio delle affermazioni che a Verona non avrebbero sfigurato. Il punto è: cosa dovremmo dedurre da questi continui cambi d’opinione? Qual è la visione dei Cinque Stelle su questi temi?
Un’ulteriore giravolta dell’universo grillino, inaspettata anche per i loro stessi elettori, è avvenuta sullo Ius soli. Nell’ultimo periodo del governo di Paolo Gentiloni, quando il Pd tentennava per paura di portare avanti una battaglia invisa all’elettorato, il M5S – lo stesso che nel 2013 presentò una proposta di legge ancor più generosa di quella criticata all’avversario – si è defilato dalla discussione dichiarandosi contrario. Anche in questo caso, cosa dobbiamo dedurre? La risposta è niente, perché questo è il paradigma di una forza politica che non segue un percorso legato a valori o ideali, bensì cambia idea sulla base degli umori popolari e delle convenienze elettorali. Adesso che il Pd è stato sconfitto, infatti, hanno provato nuovamente a sondare la disponibilità dell’elettorato mandando avanti il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha dichiarato: “Non è nel contratto di governo, ma auspico che si avvii nel Paese, nelle sedi opportune, una riflessione serena”. Poi, una volta viste le reazioni negative sul web, sono subito sono corsi ai ripari con la rettifica di Di Maio: “Non è in agenda e non sarà una misura che questo governo discuterà, Conte ha espresso una sua sensibilità”. E Conte ha obbedito.
Di Maio si è detto preoccupato per la “deriva di ultradestra della Lega”. Quella che lui chiama “deriva”, però, è la natura stessa del partito di Salvini; una natura che era palese già prima delle elezioni, che è rimasta lampante durante questi mesi di governo e che, di certo, visti i risultati che raccoglie, non verrà smorzata in futuro. Nello specifico, Di Maio ha posto l’attenzione sulle alleanze europee del partito di Salvini, puntando il dito contro quei partiti che negano l’Olocausto. Una condanna che, per quanto doverosa, è paradossale. In primis perché Di Maio critica le alleanze della Lega, ma dimentica che tra queste la più importante è quella con il M5S, visto che senza il loro appoggio non potrebbero nemmeno governare. In secondo luogo è stato lui stesso, due mesi fa, quando ancora considerava i gilet gialli dei paladini della libertà e della democrazia, a presentare durante una conferenza stampa i primi alleati europei del M5S e tra questi c’è un nome che fa quanto meno storcere il naso: Kukiz ’15, il partito polacco fondato dal musicista punk rock Pawel Kukiz, notoriamente vicino ad ambienti nazisti. Kukiz è schierato apertamente contro l’aborto e non perde occasione per discriminare le coppie omosessuali. Inoltre è legato a gruppi neofascisti come Gioventù Polacca e Campo Radicale Polacco, e in Italia ha una sorta di gemellaggio con Forza Nuova. Anche i tedeschi dell’AfD, chiamati in causa da Di Maio con l’accusa di negazionismo, sono vicini al M5S, attraverso Jorh Meuthen, che fa parte dello stesso gruppo (Efdd) dei Cinque Stelle all’Europarlamento.
Infine, un ulteriore capitolo della – poco credibile – crociata di Di Maio contro l’estrema destra ha coinvolto anche CasaPound. Su Facebook il vicepremier ha scritto un post in cui spiega di voler superare le irregolarità e iniziare con gli sgomberi, “che si tratti di campi rom o di CasaPound”. Se non avesse menzionato CasaPound sarebbe entrato nell’orbita di Salvini, dove ormai non sembra più possibile racimolare nuovi elettori. Per questo Di Maio ha voluto quantomeno fingere di lanciare una frecciatina al partito dei fascisti del terzo millennio, cercando il favore degli elettori a cui CasaPound non è particolarmente gradita. Anche in questo caso però Di Maio dimostra un problema mnemonico: nel 2013 Beppe Grillo, facendo il giro delle sette chiese, è andato a incontrare proprio CasaPound, confrontandosi con i militanti e dicendo: “Se lo volete, siete i benvenuti nei Cinque Stelle”. Ha poi dichiarato di avere molti punti in comune con i fascisti del terzo millennio, e di considerare l’antifascismo un problema che non gli compete.
La realtà è che il M5S non ha un progetto politico, una visione a tutto campo che permetta di seguire una strada ben definita. Qualsiasi mossa sembra avere un fine elettorale, compreso lo zigzagare tra destra e sinistra a seconda del vento. Questo è un vantaggio quando bisogna veicolare il malcontento popolare, uno svantaggio quando si arriva al potere e il disegno d’azione deve essere più nitido. Adesso è il momento di scagliarsi contro la destra, accorgersi a scoppio ritardato che la Lega ha una natura conservatrice – se non a tratti reazionaria – e tentare, in vista delle europee, di allargare la propria platea di elettori. Il M5S non può più toccare certi argomenti, ormai tipicamente salviniani (in primis la questione migranti) perché rischierebbe di impantanarsi nel territorio “di destra” senza averne le stesse basi ideologiche e senza un elettorato solido, ma figlio della protesta. Dunque cerca fortuna altrove, vagabondando in zone che chiaramente non gli competono, come ad esempio quelle dei diritti civili o della contrapposizione al nazionalismo. Perché le battaglie antifasciste del M5S fanno ridere almeno quanto il tentativo raffazzonato di allontanarsi da Salvini.