Di Maio giurò che avrebbe salvato Pernigotti. 3 mesi dopo ha chiuso.
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La gestione dell’affaire Pernigotti è stata forse la perfetta sintesi del modus operandi che ha caratterizzato il governo gialloverde in questi primi mesi di vita. I bagni di folla nelle piazze, gli slogan e i tweet per la difesa dei lavoratori italiani e della produzione nazionale si sono scontrati con la dura realtà dei fatti. E hanno perso. Un film già visto, della stessa regia di chi diceva di aver eliminato la povertà e di averci portato in pieno boom economico, ma che oggi deve fare i conti con una classifica della Commissione Europea che mette l’Italia all’ultimo posto in termini di crescita economica stimata per il 2019, e con i dati Istat che raccontano di una produzione industriale calata del 5,5% in anno. Con la Pernigotti è andato in scena lo stesso mix di promesse mai seguite dai fatti.

Lo scorso novembre, Luigi Di Maio si trovava a Novi Ligure, con una manciata di cioccolatini in mano. Glieli hanno dati i lavoratori della Pernigotti, in strada per protestare contro l’imminente chiusura dello stabilimento locale dell’azienda produttrice di cioccolato. Il gruppo turco Toksöz, titolare del marchio piemontese dal 2013, ha deciso nei mesi scorsi di appaltare la produzione a un’altra fabbrica, lasciando senza lavoro buona parte dei suoi 250 dipendenti.

Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha preso da subito a cuore la questione, manifestandolo con una serie di gesti a favore di telecamere: prima con la sua presenza in strada tra i dipendenti di Novi Ligure, poi con il gesto simbolico dello scarto e della degustazione del cioccolatino Pernigotti, infine facendo la voce grossa nelle sedi istituzionali per far capire alla proprietà turca l’importanza dello stabilimento. A fine novembre si è tenuto l’incontro tra i rappresentanti del gruppo Toksöz e Di Maio, che ha chiesto di mantenere la produzione in Italia, o quanto meno di dare disponibilità a utilizzare il marchio Pernigotti, con il governo che si impegnava a trovare nuovi investitori. Alle richieste del ministero i turchi hanno risposto un secco no, sottolineando l’intenzione di non vendere né il marchio né la società. Un nulla di fatto che il governo ha incassato come una mezza vittoria di immagine, mostrandosi battagliero e pronto a difendere a oltranza i diritti dei lavoratori. Il 2018 si è chiuso con l’apertura della proprietà alla possibilità di sospendere la procedura richiesta di cassa integrazione per cessata attività fino al 31 dicembre, elemento considerato come un piccolo passo nella giusta direzione, un modo per prendere tempo in vista di un successo dei lavoratori.

“Presto faremo un nuovo tavolo per delineare una strada che garantisca la dignità dei lavoratori e anche dello storico marchio”, dichiarava Di Maio a fine novembre, mentre su Facebook diventava virale un post di Riccardo Olgiati, portavoce del M5S alla Camera, in cui tuonava che “La musica è cambiata, il governo del cambiamento non si inchina né si genuflette a nessuno”. L’incontro è stato anche l’occasione per annunciare che il governo avrebbe lavorato a una norma per vincolare i marchi storici italiani e le relative produzioni al territorio nel quale vengono realizzati, valorizzando e proteggendo il made in Italy. La causa della Pernigotti si è trasformata in poche settimane nel banco di prova del governo del cambiamento, a dimostrazione della sua vicinanza e attenzione all’Italia dei lavoratori. Una battaglia destinata a finire male.

Lo scorso 5 gennaio Luigi Di Maio ha visitato di nuovo lo stabilimento di Novi Ligure, prendendosi un impegno con i dipendenti dell’azienda cioccolatiera, che hanno cominciato a sperare in un lieto fine: “La Pernigotti resterà in Italia e nessuno verrà licenziato”, sono state le parole del ministro. Dopo appena un mese, il 5 febbraio arriva la svolta. Al ministero del Lavoro viene firmato un documento importante, alla presenza del direttore finanziario, del direttore risorse umane e degli advisor legali del gruppo Toksöz. Nessun licenziamento? Mantenimento della produzione in Italia? Possibilità di usare il marchio e cercare nuovi investitori? Tutt’altro. Si tratta dell’accordo per la cassa integrazione straordinaria per 92 lavoratori dell’azienda. 

Di Maio a quest’ultimo incontro non è presente. La diplomazia internazionale chiama, c’è in programma la visita in Francia ad alcuni esponenti dei gilet gialli. Le elezioni europee sono vicine, la campagna elettorale non può aspettare. Ma la sensazione è che se anche fosse stato a Roma, il ministro del Lavoro avrebbe saltato volentieri l’incontro con il gruppo Toksöz e il motivo, in un certo senso, ha fini elettorali. Difficile mettere la faccia in un accordo di cassa integrazione, dopo i rifiuti categorici degli scorsi mesi da parte del ministro pentastellato.

L’accordo firmato il 5 febbraio è esattamente quello che Luigi Di Maio e i suoi portavoce avevano garantito non sarebbe mai passato, facendo dichiarazioni che a questo punto è lecito pensare poggiassero sul nulla, senza tenere conto della palese volontà del gruppo turco Toksöz di chiudere l’impianto di Novi Ligure. Quando il ministro pentastellato sosteneva che la cassa integrazione sarebbe stata concessa solo se l’azienda avesse garantito la re-industrializzazione e l’occupazione dei lavoratori, non considerava che il gruppo turco aveva chiarito da subito la contrarietà a cedere il marchio. Anche per questo, chi aveva mostrato interesse a rilevare lo stabilimento si era subito defilato, una volta noto che la sigla Pernigotti sarebbe scomparsa. Indifferente alla realtà delle trattative, Di Maio ha continuato a fare la voce grossa, non si sa se come strumento di pressione o per semplici fini propagandistici. 

Di Maio ha messo in bocca alla dirigenza dell’azienda promesse mai fatte. “Non siamo stupidi, abbiamo sentito tante belle parole dal ministro quando è venuto qui, ma poi quando c’era da metterci la faccia non è nemmeno venuto al tavolo”, hanno sottolineato nelle scorse ore i lavoratori licenziati, gli stessi che fino a poche settimane fa lo abbracciavano e applaudivano ascoltando le sue promesse. Oggi queste persone sono a casa. Per alcuni di loro si prospetta la possibilità di essere trasferiti in un altro stabilimento dell’azienda, in provincia di Novara. Magra consolazione, dato che anche quest’ultimo perderà il marchio storico ed è difficile possa attirare concreto ed effettivo interesse di nuovi investitori. C’è anche chi sta trovando lavoro in altre aziende, che si sono dimostrate sensibili alla causa e pronte ad assumere. Il destino di molti lavoratori è comunque segnato, con una conclusione simile a molte altre a cui assistiamo in Italia. La differenza, in questo caso, è che quello che doveva essere un simbolo della forza del ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico pentastellato e una consacrazione del Di Maio negoziatore si è trasformato in una disfatta nell’arco di soli due mesi.

“Il destino dei lavoratori non può essere diviso dal destino del marchio, perché qui si sta pensando di prendere il marchio, smembrarlo e metterlo in produzione terzi. Questo farà perdere posti di lavoro e farà perdere credibilità al marchio”, diceva Di Maio a margine di uno degli incontri del tavolo di crisi sulla vertenza. Oggi a perdere di credibilità è stato il suo ministero. Il protagonismo delle prime settimane, la sua presenza fisica e simbolica in piazza al fianco dei lavoratori, le sue rassicurazioni sul fatto che con le buone o le cattive i lavoratori l’avrebbero avuta vinta con la proprietà, hanno lasciato il posto alla sedia vuota di Di Maio al tavolo tecnico per la firma dell’accordo. Un’assenza aggravata dalla mancanza di qualunque commento da parte del ministro sulla conclusione delle trattative e un silenzio che stride con il bombardamento quotidiano di promesse che aveva caratterizzato i mesi scorsi. 

Le uniche dichiarazioni ufficiali sono arrivate dal capogruppo pentastellato al Senato, Stefano Patuanelli, che ha sottolineato che “Di Maio sta cercando di seguire anche questa crisi aziendale”, come a precisare che le cose in ballo in questo periodo sono tante e il ministro non riesce a stare dietro a tutto. Chi non si è fatto né vedere sentire sul caso Pernigotti è poi l’altro leader del governo gialloverde, l’onnipresente Salvini, tanto abile a inserirsi in questioni ministeriali non di sua competenza quando c’è da prendersi il merito, quanto a defilarsi dalle situazioni che potrebbero portare a un ritorno di immagine negativo. La sua unica dichiarazione sul tema è un post su Facebook del luglio 2013 dove scrive: “Anche i cioccolatini PERNIGOTTI finiscono in mani straniere, oggi a comprare è stata un’azienda TURCA. A parte che smetterò di comprarli, ma è l’ennesima dimostrazione che se non MOLLIAMO questo EURO e questa EUROPA perderemo lavoro, produzione, futuro”. Un tripudio di maiuscole che strumentalizza la vicenda Pernigotti e il destino dei suoi dipendenti in funzione della solita propaganda anti-euro e sovranista, marchio di fabbrica della retorica di Salvini.

Se prima del 5 febbraio la causa Pernigotti sembrava una priorità del governo gialloverde, oggi non se ne trova più traccia nelle agende ministeriali, né si parla più della fantomatica legge a difesa del made in Italy e dei produttori italiani. Probabilmente, tornerà in auge per la prossima crisi aziendale, quando Di Maio e i suoi fedelissimi scenderanno in piazza al fianco dei lavoratori, con il ritornello già visto di promesse, slogan e attivismo social. Adesso è meglio tacere, visto che il caso Pernigotti non ha regalato al governo nessun trofeo da poter sbandierare in pubblico. Le elezioni europee sono vicine e metterci la faccia potrebbe far perdere voti.

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