Nei giorni più accesi del dibattito sul ddl Zan, che ancora attende di essere discusso al Senato, non era raro imbattersi anche sui giornali italiani in articoli che presentavano il fenomeno dei cosiddetti “detransitioner”, cioè persone che dopo aver intrapreso una transizione per cambiare genere se ne pentono e iniziano un percorso per poter tornare alla condizione di partenza. Nel controverso reportage Viaggio ai confini del gender, apparso sullo speciale per i venticinque anni di D La Repubblica, si parlava per esempio della “faciloneria con cui si prescrivono i bloccanti per la pubertà” e di un “emergere delle detransitioner” di cui sarebbe meglio non parlare per il rischio “di apparire transfobici, bigotti o di estrema destra”. L’interesse per chi si pente della transizione – una percentuale molto bassa tra chi intraprende il percorso di affermazione del genere – si è intensificato molto negli ultimi tre anni, in concomitanza con la discussione sulla modifica del Gender Recognition Act, la legge che regola la rettifica dei documenti per le persone transgender nel Regno Unito, e a causa di un processo che ha visti contrapposti una detransitioner e il Sistema sanitario nazionale inglese.
Il 17 settembre scorso, la Corte d’appello dell’Alta corte di giustizia inglese ha ribaltato la precedente sentenza del caso “Bell v. Tavistock”, una causa intentata da una quindicenne (all’epoca dei fatti) contro la Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, che offre un servizio per il trattamento della disforia di genere in Inghilterra. Nell’ottobre del 2019, Keira Bell (nei documenti giudiziari chiamata Quincy Bell) denunciò la clinica per aver sottostimato la sua capacità di giudizio nell’assumere i bloccanti della pubertà, ormoni che mettono in pausa in maniera reversibile lo sviluppo sessuale. Normalmente questi ormoni vengono somministrati agli adulti con patologie come l’endometriosi, il cancro della prostata o della mammella o ai bambini per fermare una pubertà precoce. Da qualche tempo vengono prescritti off-label (cioè secondo modalità diverse da quelle descritte nel foglietto illustrativo) anche agli adolescenti trans affinché non si sviluppino i caratteri sessuali che verrebbero poi modificati con la transizione o attraverso operazioni chirurgiche. Proprio perché vengono utilizzati per uno scopo diverso da quello per cui sono stati pensati, chi è contrario ai bloccanti della pubertà parla in maniera impropria di una “terapia sperimentale”.
Keira Bell, che desiderava cambiare sesso e che si è sottoposta alla terapia ormonale e, una volta maggiorenne, anche alla mastectomia, ha poi cambiato idea, trovandosi così alle prese con un corpo trasformato a causa di decisioni prese, a detta sua, quando non era sufficientemente matura. In primo grado l’Alta corte di giustizia inglese le aveva dato ragione, stabilendo che “un minore di 16 anni può acconsentire all’utilizzo di farmaci destinati a sopprimere la pubertà solo se è capace di comprendere la natura del trattamento”, ma anche che un minore di 16 anni ha “enormi difficoltà” nel prendere tale decisione. La sentenza dello scorso anno ha avuto effetti molto importanti per i diritti delle persone trans in Gran Bretagna: il servizio sanitario inglese ha immediatamente sospeso la somministrazione sia dei bloccanti della pubertà che della terapia ormonale ai minori di 16 anni, lasciando centinaia di adolescenti senza una cura che ha anche un ruolo importante e dimostrato nella prevenzione del rischio di suicidio.
La sentenza è stata accolta con favore soprattutto dagli ambienti conservatori e dalle cosiddette femministe trans-escludenti o gender critical, secondo le quali la transizione in giovane età, specialmente per chi passa dal sesso femminile a quello maschile, sarebbe una forma di “cancellazione della donna”. Ad agosto, una manifestante no vax ha usato la sentenza “Bell v. Tavistock” per protestare di fronte a un centro vaccinale inglese, perché a suo dire dimostrava che i minorenni non possono acconsentire alla somministrazione di farmaci sperimentali (nonostante né il vaccino anti-Covid né i bloccanti della pubertà lo siano).
La sentenza è stata molto contestata sia dal mondo scientifico sia dagli attivisti LGBTQ+ e dalle famiglie di minori transgender. Il fatto che i bloccanti della pubertà siano farmaci sperimentali di cui non si conoscono le controindicazioni, come sostenuto dai giudici, è stato smentito dalla letteratura scientifica. Inoltre, parlando degli effetti a lungo termine dell’assunzione dei bloccanti, la Corte partiva dal presupposto che tutti gli adolescenti che decidono di bloccare la pubertà prima dei 16 anni finiscano prima o poi con il completare il percorso di transizione. In realtà, sebbene la maggior parte delle storie abbia proprio questo esito, i bloccanti hanno effetti reversibili e temporanei, per cui è improprio parlare di “effetti a lungo termine”: quelli se mai sono legati alla terapia ormonale e alle operazioni chirurgiche, cose a cui Bell si è sottoposta superati i 16 anni, e che non hanno a che vedere direttamente con i bloccanti. Oltre a queste imprecisioni, gli attivisti transgender si sono lamentati anche delle modalità con cui si era svolto il processo: sono stati ascoltati testimoni come Paul Hurtz, un endocrinologo presentato come esperto di disforia di genere che però non ha mai trattato una persona transgender ed è vicino ad ambienti del fondamentalismo cattolico, e “Transgender Trend”, “un gruppo di genitori, professionisti e accademici preoccupati per il numero di bambini con diagnosi di disforia di genere”, convinti che la transizione sia una specie di moda adolescenziale. “Stonewall” e “Mermaid”, due delle più importanti associazioni trans inglesi, non sono state convocate in aula.
La Tavistock è ricorsa in appello e stavolta i giudici hanno dato ragione alla clinica, sostenendo che non è compito di un tribunale trarre conclusioni sull’età in cui una persona minorenne può esprimere il proprio consenso per un trattamento sanitario. Deve essere infatti il medico, con il coinvolgimento del minore e dei suoi genitori, a valutare caso per caso. Questa sentenza è importante non solo perché ha ridato legittimità alla somministrazione dei bloccanti della pubertà e più in generale al diritto di autodeterminazione delle persone trans adolescenti, ma anche perché ha mostrato come il processo precedente abbia dato troppa enfasi a preconcetti e generalizzazioni sul mondo trans che troppo spesso nascondono interessi diversi dalla semplice tutela dei bambini.
In particolare, il processo “Bell v. Tavistock” ha dato grande visibilità al movimento dei detransitioner, presentando come un allarme sociale qualcosa che effettivamente esiste, ma in percentuali assai minori di quanto appaia dagli articoli più allarmisti come quello di D La Repubblica, in cui si citava il caso. Si stima che una percentuale che va dall’1 al 3% delle persone che hanno fatto un percorso di transizione abbia interrotto il trattamento. In un sondaggio del 2015 risulta che solo lo 0,4% dei detransitioner lo abbia fatto dopo aver capito di aver commesso un errore, mentre la motivazione più diffusa erano le pressioni dei genitori. Dopo il caso di Keira Bell, Ky Schevers – uno dei primi detransitioner ad aver raccontato pubblicamente la sua storia ad alcune giornaliste trans-escludenti –, ha scritto un lungo pezzo su Medium in cui paragona il processo di de-transizione a una terapia di conversione per “guarire dall’omosessualità”. Schevers racconta di essere stato manipolato e sfruttato da una comunità ideologicamente motivata che voleva convincerlo di essere una lesbica che non accettava se stessa.
Non da ultimo, l’avvocato che ha assistito Keira Bell nel suo processo contro la Tavistock è Paul Conrathe, un avvocato cattolico che ha lavorato a diversi casi riguardanti l’eutanasia e le interruzioni di gravidanza, tra cui quello di una donna che ha denunciato una clinica per non averla informata sulla possibilità che il feto provasse dolore durante l’aborto. Conrathe ha diversi legami con la destra cristiana ed è stato l’avvocato della famiglia di Tafida Raqeeb, una bambina con una malattia incurabile che è stata trasferita in un centro per le cure palliative in Italia dopo che gli ospedali inglesi avevano giudicato inutile proseguire le cure. Il caso era stato assiduamente seguito da CitizenGo, una delle organizzazioni che hanno partecipato al Congresso delle Famiglie di Verona.
Dietro questo caso delicato e complesso sembra esserci una realtà meno cristallina di quanto potesse sembrare. Pur nel rispetto dell’autonomia e della legittimità di ogni storia – anche quelle di chi capisce di aver commesso un errore o di chi non si è sentito sufficientemente consapevole e informato nell’intervenire sul proprio corpo – bisogna riconoscere che la narrazione sulle persone trans sta assumendo connotati sempre più allarmistici e sensazionalistici, specie quando è portata avanti da gruppi interessati soltanto a far valere le proprie ragioni. Forse la nuova sentenza dello scorso 17 settembre pronunciata della Corte d’appello dell’Alta corte di giustizia inglese servirà a mettere loro un freno.