“Dice delle cose orribili sugli ebrei, odia Israele, odia gli ebrei. Odia gli ebrei, è molto semplice”. Questa è la descrizione che lo scorso luglio Donald Trump ha fatto di Ilhan Omar, deputata del Minnesota, nata in Somalia e arrivata in America come rifugiata, prima musulmana (assieme a Rashida Tlaib, democratica del Michigan) a conquistare un seggio nel Congresso. Omar è una delle quattro deputate democratiche (le altre sono Tlaib, Ayanna Pressley e Alexandria Ocasio-Cortez) che secondo Trump “dovrebbero tornare nei loro Paesi, se non sono felici qui”, ma non lo fanno perché “vengono da Paesi i cui governi sono una totale e assoluta catastrofe” – tra l’altro, Tlaib, Pressley e Ocasio-Cortez sono tutte nate negli Stati Uniti, quindi non si capisce dove dovrebbero tornare. Criticato per questi commenti persino da alcuni (pochi) membri del suo partito, Trump rispose che la colpa era di queste donne che “odiano il nostro Paese e Israele”, arrivando persino a insinuare una simpatia di Omar per al-Qaida. Trump ha spesso ripetuto queste accuse, estendendole anche all’intero Partito democratico: secondo lui, Omar, Tlaib, Pressley e Ocasio-Cortez sono i volti nuovi di un partito che odia gli ebrei, Israele, l’America.
L’accusa di antisemitismo rivolta alle quattro deputate democratiche è particolarmente interessante per una ragione: l’oggetto della discussione di quel momento non erano gli ebrei americani, non era l’alleanza tra Stati Uniti e Israele, non era la legittima campagna di BDS (“Boycott, divestment, sanctions”) che Omar e Tlaib portano avanti contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, non erano le insinuazioni antisemite fatte da Omar in passato e per le quali si è scusata più volte: l’oggetto della discussione di quel momento era un pacchetto di aiuti da 4.5 miliardi di dollari che la Camera dei Rappresentanti aveva appena approvato nel tentativo di risolvere la crisi migratoria al confine con il Messico. Le quattro deputate avevano votato contro, criticando duramente le politiche anti-immigrazione dell’amministrazione Trump ed entrando in polemica anche con il Partito democratico. Capire perché questo punto è stato usato per costituire la base per un’accusa di antisemitismo rappresenta l’estremo di una matassa che apparentemente può essere dipanata solo dalla mente di Trump, il quale si autodefinisce “a very stable genius who always chooses his words”.
Oltre a essere spesso oggetto delle attenzioni del presidente degli Stati Uniti, Omar, Tlaib, Pressley e Ocasio-Cortez hanno in comune il fatto di essere giovani donne non bianche, deputate arrivate in parlamento da appena un anno, appartengono a quel pezzo di Partito democratico ormai dichiaratamente socialdemocratico/socialista e sostengono Bernie Sanders. Nonostante spesso si parli di lui come del presidente che ha elevato l’improvvisazione a strategia politica, niente di quello che Trump dice e fa è davvero casuale. Il piano è chiaro: innestare nell’opinione pubblica l’equivalenza tra progressismo e antisemitismo, fare del pregiudizio antiebraico un’esclusiva della sinistra e trasformare l’indignazione in uno strumento di propaganda. La stessa cosa che il famoso consulente del Partito repubblicano di New York e di diversi candidati conservatori in giro per il mondo, Arthur J. Finkelstein. fece con la parola “liberal” negli ultimi due decenni del secolo scorso. Trump vuole cambiare il significato della parola “progressista” da positivo a negativo. E per riuscirci, come insegnava Finkelstein, basta avere un messaggio chiaro e dispregiativo nei confronti dell’avversario, e la pazienza di ripeterlo finché chi se ne deve convincere non se n’è convinto.
“Tutto l’odio che c’è a New York viene da sinistra”, ha detto a Fox News Dov Hikind, democratico che per 35 anni ha occupato un seggio nella New York State Assembly. Secondo Hikind i crimini di Granton Thomas, che lo scorso 30 dicembre ha fatto irruzione nella casa di un rabbino di Monsey e ha accoltellato cinque persone lì presenti per festeggiare Hannukah, sono da imputare alla retorica antisemita di persone come il leader della Nation of Islam Louis Farrakahn e (ancora una volta) a esponenti del Partito Democratico come Tliab, Omar e Ocasio-Cortez. Un’interpretazione della realtà che gli è valsa il pubblico ringraziamento di Trump, lusingato dalle “splendide parole” a lui dedicate da Hikind. Trump sta insistentemente cercando di vendere all’elettorato americano l’idea che l’antisemitismo sia esclusiva di musulmani ed estremisti di sinistra: in questa distopia, l’America è sotto attacco di una Legion of Doom composta da talebani e bolscevichi pronti a tutto pur di distruggere lui, l’autoproclamato Re d’Israele, l’autodefinitosi “uomo meno antisemita che incontrerete nelle vostre vite”.
Il presidente americano adotta una definizione di antisemitismo fatta su misura: tutti i suoi critici e avversari diventano infatti “antisemiti” per il semplice fatto che solo chi odia gli ebrei e Israele può odiare il presidente che ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme, che ha riconosciuto le Alture del Golan come territorio israeliano e che si è ritirato dall’accordo sul nucleare iraniano. E arriva al parossismo quando affermando che persino gli ebrei americani che votano democratico dimostrano di “non amare abbastanza Israele”, e che compiono una scelta che secondo lui può essere spiegata solo da una condizione di “completa ignoranza o grande slealtà”. Era dai tempi di Richard Nixon che un presidente non ricorreva a un classico dell’antisemitismo come l’insinuazione della doppia lealtà dell’ebreo, ma almeno il razzismo di “Tricky Dick” era limitato a conversazioni private di cui siamo venuti a conoscenza solo ascoltando i White House Tapes rilasciati dalla Nixon Presidential Library. Trump è invece uno che non si fa problemi a usare argomenti “antidreyfusardi” davanti a una platea di ebrei americani, uno a cui sembra a volte sfuggire addirittura la differenza tra ebrei e israeliani, confusione che lo porta a considerare Netanyahu il primo ministro di qualsiasi ebreo gli si trovi davanti.
“Mi ha dato molto fastidio che il presidente abbia usato come un’arma l’indignazione causata dall’antisemitismo […], tutto per difendersi dalle accuse di razzismo a lui rivolte”, ha dichiarato la professoressa Deborah E. Lipstadt. Le parole di questa docente di studi ebraici dimostrano la spudoratezza del tentativo di Trump di usare l’antisemitismo vero, presunto o inventato degli altri per coprire il suo palese, reiterato e convinto razzismo.
Una cortina fumogena che però sembra coprire ben poco, secondo un sondaggio commissionato dalla America Jewish Society: il 76% degli intervistati giudica sfavorevolmente la maniera in cui Trump tratta la questione dell’antisemitismo e il 41% ritiene che il Partito repubblicano sia l’unico o il maggiore responsabile dell’aumento di episodi di antisemitismo verificatosi negli ultimi anni. L’unico a stupirsi di questi numeri è proprio Trump, convinto che le sue politiche pro-Israele stiano invece causando uno spostamento di elettori di origini ebraiche (millennial in particolare) dal Partito democratico a quello repubblicano. Lo Jexodus (così è stata chiamata questa migrazione politica) ovviamente sarebbe dovuto anche a un Partito democratico che secondo Trump è ormai una succursale di Hamas. La realtà però si ostina a contraddirlo: nel 2016 i due terzi degli ebrei americani votarono infatti per Hillary Cliton e nel 2020 per il Partito democratico si prevede il bis; il suo atteggiamento nei confronti di Israele convince di più i cristiani (evangelici in particolare) che gli ebrei. E questi numeri, secondo quanto dichiarato al Washington Post da un funzionario della Casa Bianca, lo mandano in bestia.
Daniel Shapiro, l’ex ambasciatore americano in Israele, ha definito l’atteggiamento di Trump nei confronti della comunità ebraica “incredibilmente cinico”. Il tic semplificatore che affamiglia tutti i populisti del mondo ha portato Trump a considerare gli ebrei americani come single issue voters (elettori il cui voto per o contro dipende da una sola questione) interessati esclusivamente a Israele, e sempre e comunque favorevoli a qualsiasi sua politica, senza nessuna necessità di dibattito. Ma gli ebrei americani non sono più esiliati come nella prima metà del Novecento, sono americani a tutti gli effetti, e come tali ragionano. Giustizia e uguaglianza, integrazione per gli immigrati e pari opportunità sono questioni fondamentali anche per il bacino elettorale che rappresentano, e queste sono priorità politiche difficili da conciliare con un presidente che ha suscitato l’entusiasmo di suprematisti bianchi e di neonazisti come David Duke, Peter Brimelow, Jared Taylor, Brad Griffin e Rocky Suhayda, che ha definito gli immigrati messicani stupratori e spacciatori e i cittadini afroamericani disoccupati cronici e irrimediabilmente illetterati, che ha inquinato il dibattito pubblico prendendo a piene mani dal repertorio complottista e antisemita dei Bill O’ Reilly e Glenn Beck, che ha dichiarato che a Charlottesville c’erano brave persone da una parte e dall’altra, sia dalla parte di quelli che morivano investiti dalle macchine che dalla parte di quelli che cantavano “gli ebrei non ci sostituiranno”.
Ma la trasformazione in arma dell’antisemitismo non è un problema che riguarda solo gli Stati Uniti. Boris Johnson è il primo nella classe degli epigoni: il suo libro Seventy-Two Virgins, pubblicato nel 2004, quando era parlamentare e ministro ombra dei Tories, racconta di oligarchi ebrei dal naso grosso e capelli ricci che controllano i media e truccano le elezioni, un magnum opus di razzismo che gli valse il prestigioso titolo di “unfit” per il ruolo di primo ministro. Da direttore di The Spectator, BoJo ospitò l’”illustre editorialista” (parole sue) Taki Theodoracopulos, un antisemita reo confesso, convinto che i neri abbiano un quoziente intellettivo più basso dei bianchi ed estimatore di Enoch Powell. Nonostante questo impressionante curriculum, Johnson non ha perso occasione per sottolineare il presunto antisemitismo endemico del Labour e l’incapacità di Corbyn di riconoscere, affrontare e risolvere il problema. Il bue, l’asino, le corna: la Santissima Trinità di Trump e dei suoi epigoni sparsi per il mondo, così impegnati a ricostruirsi un’immagine posticcia dopo anni di frequentazioni nel mondo dell’antisemitismo.