Perché la moda non può essere democratica

Nel 2009, Chiara Ferragni aveva appena aperto il suo blog The Blonde Salad, indossava coroncine di fiori e metteva la matita nera nella rima interna dell’occhio. Quell’anno, a Milano, Vogue organizzò la sua prima Vogue Fashion Night Out, in contemporanea con altre città del mondo. L’idea era quella di risollevare il settore moda, pesantemente colpito dalla recessione, con un evento dal forte impatto mediatico. Il momento era perfetto: ovunque spuntavano le famigerate fashion blogger che con il loro seguito di agguerrite fan sapevano trascinare folle di emule pronte a incontrare quelle ragazze “normali” che sembravano avercela fatta perché sponsorizzavano su internet dei campioncini di mascara. Nessuno all’epoca immaginava che nel giro di dieci anni Chiara Ferragni avrebbe creato un impero da 40 milioni di dollari l’anno, trasformando la propria esistenza in un brand. Ma per dieci anni, ci siamo convinti – grazie al successo ora in declino delle blogger ed eventi alla portata di tutti come quelli di Vogue – che la moda fosse finalmente diventata democratica.

Matthew Schneier ha scritto un’editoriale sulla rivista di moda The Cut intitolato “Il 2009 ha ucciso la moda come la conoscevamo”. Il 2009 fu il primo anno in cui le blogger riuscirono a sedersi nei front row delle passerelle accanto ad Anna Wintour, e in cui nacque l’ossessione per lo street style, amplificata dai social network in ascesa. Alcune opere di grande successo raccontavano il mondo della moda dalla prospettiva elitaria, finendo però col renderla attrattiva e popolare: la serie tv Gossip Girl, il grande revival di Sex & The City per il film in uscita e il documentario The September Issue, creato per mostrare il lato umano di Anna Wintour dopo che Il diavolo veste Prada nel 2006 ne aveva dato un’immagine dispotica, sebbene sotto mentite spoglie, con il personaggio di Miranda Priestly. Da allora la moda non è stata più la stessa, allargando la sua utenza alle masse che oggi possono guardare le sfilate, un tempo segretissime ed esclusive, in pigiama dal divano di casa propria, in diretta streaming.

Anche Bret Easton Ellis, sulle pagine di Vogue Italia, ha espresso un’idea simile nell’editoriale di luglio: quando scriveva il romanzo Glamorama, alla fine degli anni Novanta, la moda era un mondo inaccessibile, popolato dalle inarrivabili supermodelle e governato dagli eccessi dello stilista-genio del momento. “Oggi quel mondo non esiste più. Cosa sarebbe Glamorama in una cultura che sembra ossessionata dall’inclusività e dall’idea del pensiero di gruppo invece di quello individuale, e che preferisce l’ideologia all’estetica?”, si chiede Ellis. Poi fa una critica all’inclusività sostenendo che sia “una grossa balla di matrice progressista” che, volendo a tutti i costi includere tutti senza offendere nessuno, finisce per diventare un pensiero rigido. In realtà, le preoccupazioni di Ellis sulla “dittatura del pensiero unico” sembrano le stesse di Belpietro sul politically correct: lo scrittore può dormire sonni tranquilli, le modelle non caucasiche che hanno sfilato all’ultima fashion week sono solo il 32,5% e quelle che offendono la sua vista perché hanno una taglia superiore alla 38 probabilmente meno del 3%. Per i suoi attacchi al movimento body positive, Bret Easton Ellis è stato duramente criticato, e si è persa di vista una delle cose più interessanti di cui si parlava nell’articolo: il processo di democratizzazione della moda, iniziato nel 2009, è stato portato a compimento distruggendo quel poco di interessante che le era rimasto?

L’abbigliamento è sempre stato regolato dall’autorità, religiosa o statale, in particolare per quanto riguarda i suoi eccessi: un tempo le leggi suntuarie stabilivano la quantità di gioielli, la lunghezza degli strascichi o l’altezza dei tacchi; anche oggi in molti Paesi esistono leggi che vietano capi che rivelano certe parti del corpo, oppure altre che impediscono di indossare abiti che lo coprono del tutto, come ad esempio quelle che vietano il burqa. Ma il rapporto tra moda e democrazia non si limita soltanto a questo: da sempre i vestiti sono serviti per mostrare il proprio potere e la propria ricchezza. La rivoluzione francese e l’ascesa della borghesia capitalista hanno posto parzialmente fine a questi eccessi, dando vita a quel processo di democratizzazione che avrebbe portato a una certa uniformità nell’abbigliamento.

Il sociologo tedesco Georg Simmel ha spiegato questo meccanismo nel suo saggio La moda del 1910 con la teoria del “trickle down”. La moda e i modelli comportamentali si diffonderebbero dalle classi più abbienti a quelle meno ricche “gocciolando” dall’alto, passando cioè nel tempo dalle mani di pochi fortunati alle masse, che però godrebbero soltanto dei rimasugli. Le idee di Simmel sembrerebbero smentite dal carattere sempre più orizzontale che la moda ha assunto negli ultimi trent’anni, anche grazie all’influenza delle controculture. Al trickle down è stata infatti contrapposta la teoria del bubble up: i trend nascono dal basso e risalgono la gerarchia sociale, venendo così rielaborati in un ciclo infinito. Ma ormai ci troviamo in un contesto ancora diverso, dove alto e basso si confondono: anche la moda più esclusiva viene fagocitata dalle masse in tempi brevissimi, replicata dalle catene low cost a volte prima ancora che esca nelle boutique di lusso oppure, al contrario, i colossi della moda attingono dagli stili di strada più sconosciuti. A volte sono gli stessi high brand che decidono di “abbassarsi” collaborando con la fast fashion, creando edizioni limitate a prezzi accessibili.

È chiaro che quindi la moda abbia a fare con il potere e con il denaro, prima ancora che con il gusto, e di conseguenza chiedersi se la moda possa essere democratica non riguarda tanto la possibilità di riuscire a imbucarsi all’after party di Dsquared2, quanto quella che faccia parte di un processo plurale ed egualitario. La moda, ripetibile all’infinito attraverso la produzione in serie e arrivata ormai alla portata di tutti (che se non possono permettersi l’ultima borsa griffata, possono acquistare almeno profumi, t-shirt o cinture) è davvero moda, non ha finito per perdere, come direbbe Walter Benjamin, la sua “aura”?

Per capirlo si deve scomodare il concetto gramsciano di egemonia. Secondo Gramsci, l’egemonia è l’esasperazione del consenso (che si ottiene tramite la persuasione) per aderire a un certo progetto politico e culturale. Se all’egemonia, cioè l’eccesso di consenso, si aggiunge il dominio, cioè l’eccesso di forza, si ottiene il potere. E il potere della moda è duplice: è potere sull’ordine simbolico – stabilendo cosa va “di moda” è in grado di imporre gerarchie di valori – ma è soprattutto potere economico.

Oggi ci sembra di vivere in una società democratica perché tutti ci sentiamo liberi di esprimere la nostra opinione prendendo parte al processo democratico, ma si tratta soltanto di un’illusione. Questo vale per molti ambiti della nostra vita, e anche per la moda. La moda è la punta di diamante del sistema capitalistico e, senza il privilegio, non esisterebbe nemmeno.

Come scrive Anja Aronowsky Cronberg sulla rivista di critica della moda Vestoj, “Il fattore più importante della moda contemporanea sembra lo stesso di tutti gli altri business: fare soldi. I documentari di moda, le serie tv e i film ci mostrano una versione ben costruita e ripulita di un’industria a disposizione per il consumo popolare e necessaria per far andare avanti le ruote del mercato. E le famose e apparentemente ‘democratiche’ collaborazioni con i designer […]” prosegue, “hanno senza dubbio reso i nomi della moda più accessibili, ma senza l’esclusività e la qualità che l’alta moda solitamente rappresenta. Nondimeno, le motivazioni che stanno alla base sono commerciali, non democratiche”.

E a questo discorso se ne deve aggiungere un altro, sempre più urgente e importante: il consumismo ha reso insostenibile la filiera di produzione della moda. Questo non vale soltanto per la fast fashion, ma anche per tutti gli altri segmenti del mercato, compresi i brand di lusso: i ritmi convulsi e il consumo usa-e-getta degli abiti hanno fatto diventare il tessile una delle industrie meno etiche e più inquinanti, che non esita a chiudere un occhio sui diritti dei lavoratori nel nome del fatturato. Quando ci chiediamo se la moda è diventata democratica, non possiamo ignorare il fatto che milioni di lavoratori vengono sfruttati per produrre gli abiti che indossiamo, sia che provengano dalle bancarelle del mercato che dai brand più prestigiosi.

La moda continua a reggersi su un sistema di potere fondato sulle disuguaglianze e sul fare soldi, e quindi sul privilegio. Mettiamoci il cuore in pace, non sarà una modella curvy in passerella o una persona qualunque che riesce a intrufolarsi in una sfilata a rovinare un meccanismo che non si inceppa mai.

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