Sembra passata un’eternità da quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte prometteva interventi “poderosi” con una “potenza di fuoco” mai vista prima nella storia della Repubblica. Era il 6 aprile. Poi, la liquidità che doveva essere messa in circolo a favore delle imprese si è arenata di fronte alla burocrazia e alle reticenze degli istituti di credito. Nel frattempo, le famiglie italiane continuano ad aspettare una risposta. Il governo aveva promesso di correre ai ripari con l’adozione dell’ormai famoso decreto aprile, diventato decreto maggio e infine ribattezzato genericamente decreto rilancio, quasi a testimoniare l’incertezza sui tempi di adozione di un testo che ormai sembra destinato al massimo ad arginare i danni piuttosto che a rilanciare effettivamente un’economia in profonda crisi.
Mentre la produzione industriale ha registrato a marzo un crollo del 28,4%, governo e associazioni di categoria discutono sui massimi sistemi in uno scenario surreale. A fronte delle legittime esigenze pubbliche per prevedere una qualche forma di controllo rispetto alle aziende che beneficeranno degli aiuti di Stato, gli imprenditori denunciano un remoto rischio di sovietizzazione dell’economia italiana, sostenute da diverse forze politiche, tanto all’opposizione quanto all’interno della coalizione di governo. Il risultato è un inaccettabile ritardo nel prestare aiuto alle imprese in difficoltà.
Nella sola provincia di Milano si registravano circa 15mila piccole imprese prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria. Secondo Confcommercio, per il 25% di queste attività il rischio di chiudere per sempre è concreto. Serve quindi una robusta iniezione di liquidità che arrivi direttamente dal governo, senza passare per gli “atti d’amore” che a detta di Giuseppe Conte le banche dovrebbero destinare alle imprese. Il tessuto produttivo e sociale italiano è formato soprattutto da piccole e medie realtà imprenditoriali che non hanno la stessa forza contrattuale dei grandi gruppi industriali. Bisogna muoversi in fretta, perché il tempo è denaro nel senso letterale del termine: come ha evidenziato uno studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro pubblicato il 17 aprile, sono a rischio i bilanci familiari di 3,7 milioni di lavoratori italiani. E secondo Coldiretti a causa della crisi sanitaria ed economica in Italia i nuovi poveri sono saliti di oltre un milione.
Se volgiamo lo sguardo al mondo dei lavoratori e delle famiglie la situazione è altrettanto grave. Con il decreto “Cura Italia” il governo ha messo sulle spalle dell’Inps un numero di pratiche esorbitante che l’istituto non ha i mezzi per gestire in tempi brevi. La Cassa integrazione ordinaria è stata richiesta per otto milioni e mezzo di lavoratori, con l’enorme confusione generata dalla gestione regionale dei trattamenti in deroga. Questo strumento di sostegno al reddito, destinato alle piccole aziende che non possono accedere alla cassa ordinaria, ha raggiunto soltanto un dipendente su cinque a più di due mesi dall’inizio della crisi. Il governo adesso sembra intenzionato a togliere la gestione della cassa in deroga alle regioni, aggravando ulteriormente il carico di lavoro dell’Inps.
Già il click day organizzato il primo aprile per il bonus di 600 euro destinato alle partite Iva, per esempio, è stato da subito un flop che si è cercato di giustificare con la scusa di un attacco hacker probabilmente mai avvenuto. Dalle bozze che circolano in questi giorni, il decreto “Rilancio” dovrebbe estendere il bonus per un altro mese, con la possibilità di una proroga ulteriore nel caso in cui il lavoratore autonomo riesca a dimostrare di aver subito una perdita di fatturato. Le partite Iva hanno però un enorme problema di prospettiva, e senza un’economia in grado di ripartire non ci saranno bonus una tantum in grado di sostenerle in modo efficace.
La chiusura delle scuole non può essere gestita soltanto con l’utilizzo massiccio dello smart working da parte delle famiglie o con l’estensione dei congedi parentali. Il lavoro agile è stato introdotto nel 2017 per consentire ai dipendenti di lavorare da casa ma anche da una libreria o da un bar, non certo per costringere le persone a lavorare dalla propria abitazione mentre si occupano anche dei figli. Se vogliamo veramente che il futuro del lavoro sia smart, dobbiamo iniziare a pensare a dei servizi di welfare molto più efficaci ed inclusivi di quelli attuali. Perché, e speriamo che sia chiaro a tutti, il peso della crisi non può essere sopportato soltanto dalle famiglie, con il rischio che molte siano costrette a scegliere tra lavorare e pagare una babysitter o restare a casa a occuparsi dei figli. Scelta che nella stragrande maggioranza dei casi ricade sulle donne lavoratrici.
La gestione della pandemia in una logica emergenziale poteva essere giustificata nella prima fase dell’emergenza. È arrivato il momento di occuparsi delle persone a 360 gradi, senza dimenticare che il fattore tempo gioca un ruolo determinante in questa partita. Secondo un report della Caritas, dopo due mesi di quarantena forzata il numero di poveri che si sono rivolti ai Centri di ascolto e ai servizi delle Caritas diocesane è raddoppiato. In quest’ottica l’introduzione di un reddito di emergenza e la riforma in senso solidale del reddito di cittadinanza sono provvedimenti urgenti per evitare che l’esclusione sfoci nella rabbia sociale.
Per quanto sembra che si sia finalmente trovato un accordo – ancora tutto da decifrare – è davvero intollerabile che il M5S abbia utilizzato il suo ruolo di azionista di maggioranza del governo per bloccare la regolarizzazione dei migranti che lavorano in Italia, bloccando di fatto l’intero decreto. Una buona parte dei motivi del ritardo accumulato dal governo sembra infatti risiedere nell’opportunismo politico dei grillini, che ancora una volta hanno rispolverato la loro anima populista per non essere fagocitati da Lega e Fratelli d’Italia. In un momento drammatico per l’economia del Paese fare calcoli elettorali di questo tipo è cinico e irresponsabile. Secondo i dati forniti da Coldiretti, al momento mancano circa 200mila braccianti nei campi italiani ed è sempre più urgente l’esigenza di sostituire le centinaia di migliaia di lavoratori stagionali stranieri che non hanno potuto raggiungere l’Italia a causa dell’emergenza sanitaria in corso. Gli italiani che si propongono di lavorare come braccianti agricoli al momento sono circa 20mila, un numero ridicolo rispetto alle esigenze del settore. Regolarizzare i migranti è un atto di giustizia ed è necessario per tenere in piedi l’agricoltura italiana. Eppure c’è chi trova ancora pretesti per opporsi.
L’emergenza è gestita da un governo senz’anima che sembra ormai aver rinunciato alla discontinuità promessa rispetto alla precedente legislatura. Ogni forza di governo cerca di accontentare il proprio elettorato, arrogandosi il merito di decreti concepiti come slogan politici. Un’eterna lotta di comunicazione che perde di sostanza di fronte alla portata drammatica degli eventi degli ultimi mesi. Con il decreto si sono persi giorni diventati poi settimane, rincorrendo gli egoismi di questo o quel partito, delle associazioni di categoria e della chiesa cattolica. Molti, anche nei vertici delle amministrazioni, hanno dimenticato che l’interesse generale di un Paese è qualcosa che va ben oltre la somma dei singoli interessi di parte.
L’enorme quantità di provvedimenti legislativi emanati nel corso dell’emergenza hanno tamponato in parte le ripercussioni della pandemia. Adesso è il momento di affrontare con strumenti efficaci e grande pragmatismo la crisi economica che già ha preso il posto di quella sanitaria. Sono stati chiesti sforzi enormi agli italiani, e la classe politica deve dimostrarsi all’altezza di questi sacrifici, prima che sfocino in odio e divisione sociale. La tenuta democratica del Paese dipende dal suo rilancio, da avviare nel minor tempo possibile. Perché fare bene e in fretta non è importante, è l’unica cosa che conta.