Qualche giorno fa mi trovavo in un’aula universitaria: uno studente ha chiesto a un giornalista di grande esperienza se, per esercitare questa professione da freelance, fosse consigliabile aprire una partita Iva. Lo sguardo di perplessità e il silenzio imbarazzato dell’interlocutore ha gelato sia lo studente che il pubblico in sala. Poco tempo dopo ho incontrato una coppia di amici, entrambi grafici con partita Iva: nonostante lavorassero da molto tempo nel settore, scherzavano sull’impossibilità di pianificare una vacanza o di destinare denaro a una grande spesa, perché il commercialista avrebbe potuto chiamarli da un momento all’altro e quello – fra il serio e il faceto – diventava per loro un momento di terrore. Di conversazioni e commenti del genere ne ho raccolti molti altri, convincendomi che la partita Iva, nel mercato del lavoro italiano sia lo spauracchio della nostra generazione di freelance.
Eppure le partite Iva continuano ad aumentare. Secondo l’Istat, nel mese di febbraio sono aumentate di 30mila unità e da inizio anno si contano già 71mila lavoratori autonomi in più rispetto alle stime dell’anno precedente. Non si tratta di un improvviso slancio imprenditoriale dei cittadini italiani, ma dell’effetto del Decreto dignità entrato in vigore a poche settimane dall’insediamento del governo gialloverde. La normativa, contrariamente al suo scopo dichiarato, ha reso il mercato del lavoro ancora più instabile. Questa estate Di Maio aveva sostenuto che il Decreto “avrebbe dato un colpo mortale al precariato” e pochi mesi dopo Pasquale Tridico – il nuovo presidente dell’Inps – aveva diffuso dei dati che evidenziavano un aumento dei contratti a tempo indeterminato, a fronte di una diminuzione di quelli a tempo determinato. Peccato che i dati facessero riferimento all’intero anno solare e non al breve periodo successivo all’approvazione del decreto da parte del governo insediato a giugno.
Lo dimostrano i dati dell’Istat: a settembre 2018 i contratti a tempo determinato hanno raggiunto il picco storico del 17,5% sul totale di tutti i lavoratori dipendenti, un record opposto alla narrazione imbastita dal governo Conte. A giugno 2018 i 23,30 milioni di occupati italiani si dividevano in 14,90 milioni di dipendenti a tempo indeterminato, 3,05 milioni di dipendenti a tempo determinato e 5,34 milioni di autonomi. A fine aprile 2019, gli occupati totali risultano essere 23,29 milioni, in leggero calo. Mentre il numero dei contratti a tempo indeterminato è invariato, la maggiore crescita è stata registrata nei contratti a tempo determinato, aumentati di 65mila unità rispetto all’anno precedente e delle partite Iva, cresciute di 51mila.
Questo significa che il mercato del lavoro italiano non dà sicurezze ai lavoratori, che sempre più spesso sono autonomi gravati dal peso fiscale o dipendenti con contratti in scadenza. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma il lavoro costa troppo ed è tassato all’inverosimile. Secondo il report sulle tasse 2018 dell’Ocse, per un lavoratore single il cuneo fiscale grava in busta paga per il 47,7% del totale. Un dato che ci pone al terzo posto in Europa, dietro solo al Belgio – con una tassazione al 53,7 % – e alla Germania, che si attesta al 49,7%. La tassazione di Paesi da cui potremmo prendere esempio per una riforma della tassazione, come Regno Unito e Stati Uniti, si ferma rispettivamente al 30,9% e al 31,7%. Se pensiamo che la media Ocse è del 35,9% ci rendiamo conto di come il caso italiano sia molto al di sopra della normalità. Fra tasse e retribuzioni il costo del lavoro totale pone l’Italia al diciassettesimo posto fra i Paesi avanzati, ma il vero problema, spiega la segretaria confederale della Cgil Gianna Fracassi, è che “l’Italia è diciannovesima per ammontare della retribuzione che entra nelle tasche dei lavoratori”.
È proprio la Cgil a rilevare che il potere d’acquisto dei lavoratori italiani in sette anni ha visto un notevole calo: se nel 2010 la retribuzione media ammontava a 30.272 euro, nel 2017 è scesa a 29.214, più di mille euro in meno l’anno che vanno a incidere sulla reale liquidità dei cittadini. Al contrario, altri Paesi con un cuneo fiscale simile a quello italiano, come Germania e Francia, hanno visto aumentare la retribuzione lorda pro capite: nel primo caso si è passati da circa 35mila euro annuali a più di 39mila, e nel secondo da quasi 36mila a poco meno di 38mila.
Di fronte all’urgenza di una riforma fiscale il premier Conte ha affermato che “serve tempo per cambiare un sistema fiscale iniquo”. Al momento l’unica risposta in merito da parte del governo sembra essere la flat tax, tanto cara alla Lega. Di certo non andrà ad avvantaggiare i lavoratori autonomi che subirebbero un’imposta sul reddito al 15% fino ai 65mila euro e al 20% fino a 100mila. In merito al regime previsto con la flat tax, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini è critico: “La tassa piatta è una presa in giro per chi paga le tasse, in un Paese che ogni anno registra 120 miliardi di evasione fiscale e 50-60 dispersi in corruzione, con una pressione elevatissima sul lavoro dipendente e sui pensionati troppo alta”. Per Landini mancano i giusti investimenti che stimolino il mercato del lavoro: “In autunno la manovra del governo gialloverde era recessiva. Se non si rilanciano gli investimenti pubblici e privati crescita non ce n’è, e se non si riducono seriamente le diseguaglianze la crisi non si risolve”.
Oltre ai dubbi sull’efficacia del tassazione targata Lega restano anche quelli sul suo costo effettivo: per il vicepremier Salvini basterebbero tra i 12 e 15 miliardi di euro per partire, ma è stato più volte smentito dal ministro dell’Economia Giovanni Tria che stima un costo complessivo della manovra di circa 60 miliardi.
Anche l’altra manovra tentata dal governo con il reddito di cittadinanza non fa sperare in reali miglioramenti per la condizione dei lavoratori. Secondo l’economista Ocse Andrea Garnero si tratta di una manovra che favorirà ulteriormente il lavoro precario e il part-time cronico: “È un rapporto win-win: chi è disoccupato trova lavoro e può continuare a percepire anche il reddito di cittadinanza, mentre le imprese colgono la palla al balzo per ridurre il costo del lavoro”. Come nel caso del Decreto dignità, si tratta di una misura incerta e instabile: “questo – continua Garnero – potrebbe fare da incentivo alla crescita del part-time involontario, già cresciuto in maniera robusta negli anni della crisi”. Nel frattempo il Fondo monetario internazionale prevede che nel 2019 il deficit italiano salirà dall’1,7% previsto al 2,7%, denunciando che “Un periodo prolungato di alti rendimenti dei titoli pubblici, aumenterebbe lo stress sulle banche, con conseguenze sull’attività economica e sulla dinamica del debito”. Quel che è certo è che il Pil italiano ha smesso di crescere e, secondo l’Ocse, nel primo trimestre del 2019 è addirittura in calo dello 0,2%.
I costi delle manovre di governo ricadono tutti sui lavoratori, le cui prospettive diventano sempre meno confortanti. I contratti a tempo indeterminato stanno diventando un miraggio, in particolare per chi ha appena fatto il suo esordio nel mondo del lavoro, mentre il part time integrato dal reddito di cittadinanza sembra sempre più spesso un compromesso umiliante, ma accettabile. Anche i contratti a tempo determinato siano diventati una triste consuetudine nel vaglio delle offerte di lavoro, una distorsione che abbiamo imparato ad accettare. Allora tanto vale aprire una partita Iva con la consapevolezza che presto non guadagneremo abbastanza per mantenerla, prosciugati da tasse che colpiscono soprattutto i giovani lavoratori autonomi. I nostri politici giocano con le percentuali e i dividendi, senza rendersi conto che la classe lavoratrice è stremata, priva di certezze e prospettive per il futuro. Quella scelta dal governo è la formula per gettare un Paese nel baratro, guidando al buio sulla strada della recessione.