Mai come oggi il mondo si è trovato ad affrontare crisi internazionali tanto estese e interconnesse: pandemie, guerre e recessioni economiche diventano ora fenomeni globali che influiscono sulla vita di miliardi di persone. Tra queste, ne figura una la cui evoluzione va di pari passo con il disinteresse generale rispetto ai rischi che sta generando: l’aumento del debito mondiale. Le ultime stime redatte dal Fondo Monetario Internazionale indicano un volume complessivo di debito pubblico e privato pari a 226mila miliardi di dollari – valore in assoluto più alto dal secondo dopoguerra – con un aumento rispetto al 2019 di circa 27 mila miliardi di dollari. Di gran lunga il maggiore mai registrato, dovuto alla necessità di governi e istituzioni di far fronte alla crisi sanitaria. Basti pensare che solo tra Stati Uniti e Unione europea, a partire dal 2020 sono stati immessi nel sistema economico più di quindici trilioni – migliaia di miliardi – di dollari attraverso piani nazionali come il Next Generation EU e l’American Families Plan. Aggiungendo all’equazione anche lo scoppio della guerra in Ucraina e le possibili implicazioni economiche, lo scenario generale si infittisce e le probabilità di una crisi sistemica con conseguente recessione globale si fanno maggiori. Armi, aiuti umanitari, sanzioni e limitazioni all’importazione di risorse dalla Russia sono appunto fattori con i quali Europa e America si stanno già confrontando, con l’ulteriore previsione di un massiccio aumento di spesa pubblica – e quindi di indebitamento – che andrà a sommarsi alle cifre generate negli ultimi due anni.
Ciò che rende tale crisi un fenomeno globale è l’effetto che questa sta producendo nei Paesi in via di sviluppo: gran parte dell’incremento registrato si riconduce a nazioni storicamente povere che a oggi hanno prodotto un totale di 92 trilioni di dollari di debito. Paesi essenzialmente dipendenti dagli investimenti e i prestiti di Stati Uniti e Cina, che in caso di inasprimento delle tensioni internazionali e di aumento dell’incertezza economica non sarebbero in grado di ripagare i loro debiti provocando un effetto domino potenzialmente disastroso. A questo si è recentemente aggiunto il peso dell’inflazione e delle maggiori difficoltà di reperimento e spedizione di cibo, materie prime e risorse energetiche: secondo un report della Banca Mondiale, sono più di novanta milioni le persone che quest’anno rischiano di aggiungersi al numero totale di chi vive al di sotto della soglia della povertà assoluta. Una situazione che si sta già materializzando in Paesi a basso reddito come lo Sri Lanka, il cui governo ha ufficialmente annunciato il default lo scorso 12 aprile. Nonostante le avvisaglie della crisi fossero evidenti già a partire dagli anni 2000, l’impossibilità del Tesoro cingalese di ripagare i 35 miliardi di dollari dovuti a creditori stranieri è in parte dovuta al colpo inferto dalle conseguenze del Covid-19 e della guerra Russo-Ucraina. Nel Paese asiatico i prezzi degli alimenti sono infatti aumentati di circa il 20%, mentre benzina e diesel sono impennati del 100% da inizio anno, alimentando la crisi politica ed economica già in corso. Sempre la Banca Mondiale avverte che nei prossimi dodici mesi saranno più di dieci le nazioni incapaci di ripagare il proprio debito. È dunque evidente che, insieme allo Sri Lanka, saranno i Paesi più fragili – soprattutto non esportatori di carburanti – a essere particolarmente esposti alle scelte dei Paesi più ricchi.
Non che i Paesi ricchi siano meno a rischio per gli effetti dell’indebitamento. Seppur la richiesta di prestiti sia molto più accessibile ed economica per gli Stati riconosciuti come solidi e sicuri dai mercati, il meccanismo che garantisce la sostenibilità del debito sta rischiando di incepparsi. Affinché questo possa essere considerato tollerabile, è conditio sine qua non che il governo debitore possa garantirne il rimborso tramite sufficienti entrate fiscali e una crescita economica tale da coprire la spesa per gli interessi. Crescita che, nonostante il rimbalzo previsto nel 2021, rischia di rallentare a causa delle ripercussioni del conflitto in Ucraina e di un progresso economico cinese più contenuto del previsto. In una recente nota pubblicata sul sito internet del Fondo Monetario Internazionale, le stime di crescita economica mondiale relativa al 2022 sono state tagliate di quasi un punto percentuale. Per i singoli Paesi, la situazione appare ancora più incerta, specialmente alla luce degli alti tassi di inflazione registrati e delle relative misure di aumento del costo del denaro – e quindi degli interessi per istituzioni e privati – attuate da numerose banche centrali.
Il ricorso massiccio al debito attuato dalla maggior parte dei Paesi è un’eredità tipicamente capitalistica, e statunitense, che si fonda sul trasferimento delle spese dall’oggi a un futuro remoto e meno definito. Proprio in America del Nord, il debito privato è balzato di mille miliardi di dollari nel solo 2020, un incremento che non si vedeva dal 2007, poco prima dello scoppio della crisi immobiliare e finanziaria. L’ondata di credito ha investito soprattutto il settore universitario, dove il fenomeno è divenuto tanto esteso da indurre il presidente statunitense Joe Biden a valutare una possibile cancellazione dei debiti contratti dagli oltre quaranta milioni di studenti del Paese. Basti pensare che a oggi, più del 15% degli statunitensi adulti dichiara di avere debiti correnti dovuti agli studi universitari pregressi. A partire dagli anni d’oro della deregulation finanziaria di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il mondo e l’Occidente hanno intrapreso un percorso sempre più indirizzato alla speculazione presente a danno del futuro: consumare oggi per pagare domani, perché come impartito dalle leggi del capitalismo, il denaro ha un valore temporale definito e i benefici futuri valgono decisamente meno rispetto a quelli goduti nel presente.
Dunque, debito e crescita diventano concetti consequenziali e interconnessi: l’uno deve la propria esistenza all’altro. Da questo punto di vista, si può parlare di vero e proprio “patto economico”, grazie al quale la società stessa progredisce nel suo sviluppo. Qualsiasi transazione economica, per quanto apparentemente razionale e meccanica, presuppone infatti una relazione di fiducia umana basata sull’uso del denaro stesso. L’obbligazione, nella sua traduzione inglese di “bond”, significa proprio legame, interdipendenza tra debitore e creditore. Il contante stesso fino agli anni Settanta fu un vero e proprio mezzo di debito sul quale la banca centrale garantiva il pagamento di una determinata quantità di oro. Le crisi finanziarie nascono quindi dall’alterazione di tale equilibrio fiduciario: per i più disparati motivi, un’istituzione, un’azienda o un gruppo di persone perdono la propria fiducia verso le controparti e, come in un enorme domino, il fenomeno si espande contagiando sempre più soggetti e quindi il sistema nella sua interezza. Seppur causate da fenomeni spesso diversi tra loro, il comune denominatore delle crisi economiche è la tendenza della società a rivalutare in negativo il significato della propria valuta. Le fotografie di enormi folle che si accalcano di fronte agli sportelli bancari fanno ormai parte dell’immaginario collettivo quando si pensa alle grandi debacle finanziarie della nostra epoca. Altrettanto spontaneo, però, il ritorno alla normalità coincidente con la ripresa: come in seguito a un trauma consciamente rimosso, si tende a voler cancellare istantaneamente il passato prossimo ritornando al precedente status quo. E così, come in un incessante ciclo naturale, l’umanità traccia il proprio futuro mediante un’infinita alternanza di recessioni ed espansioni. Ciò di cui puntualmente paghiamo il prezzo è la ridondante abitudine di autoconvincersi che “questa volta è differente”, che lo sviluppo economico di cui tanto ci compiacciamo rappresenti una condizione permanente a cui la nostra società è destinata. Questa logica inghiottisce anche il concetto di debito, che nella sua natura sottende un prestito di capitale garantito dalla fiducia che nutriamo verso un futuro più florido e propizio.
In conclusione, il mondo è indebitato per circa tre volte il valore del PIL globale e l’incremento di debito che stiamo contraendo coincide con una progressiva riduzione delle prossime stime di crescita economica. Sembra la ricetta perfetta per poter parlare di crisi, specialmente all’interno di un sistema mai così globalizzato, dove l’effetto farfalla assume il valore di legge fondamentale. Non sembrano però d’accordo media e organismi politici, che contribuiscono a perpetuare la situazione di silenzio sociale suggerendo che il problema non ci riguardi. Al limite, gli allarmismi sugli elevati livelli di indebitamento vengono tacciati da molti come tabù fastidiosi a cui non vogliamo dedicare troppi sforzi e attenzioni. Un comportamento che si ripropone analogamente per altre importanti minacce del presente come il cambiamento climatico e la distruzione graduale degli ecosistemi. È invece necessario mettere in discussione il mito della crescita perenne – sfatato anche dall’ultimo report IPCC delle Nazioni Unite – rivalutando un sistema economico ancora troppo dipendente dalle promesse di un lontano futuro riparatore. Eppure, basterebbe che economisti e politici rispolverassero concetti di fisica scolastica come il secondo principio della termodinamica: all’interno di un sistema chiuso, il trasferimento di energia da un oggetto all’altro è un processo irreversibile. Credere di poter vivere senza dissipare risorse appartenenti allo stesso ambiente che ci garantisce l’esistenza è solo l’ennesima delle grandi illusioni figlie di due secoli di incontrastato positivismo capitalista.