Sembra passata un’era da quando il segretario federale della Lega, Matteo Salvini, si faceva fotografare alla campagna elettorale del candidato repubblicano alla presidenza americana, Donald Trump, con in mano il cartello Make America Great Again. Piuttosto singolare per un leader politico che, dopo una brillante carriera da secessionista padano, aveva fatto del sovranismo e del nazionalismo più egoistico la propria bandiera. Ma allora sembrava normale. Anzi, alcuni avevano addirittura ipotizzato la nascita di “un’internazionale sovranista”.
Questo paradosso è uscito dalla mente di Steve Bannon: ultracattolico conservatore, direttore del sito di estrema destra Breitbart, co-fondatore di Cambridge Analytica e, prima di essere licenziato, braccio destro e consigliere anziano di Trump. Bannon ha dato vita a un movimento politico chiamato The Movement, il cui scopo dichiarato è quello di promuovere il nazionalismo al posto del globalismo, diventando il tessuto connettivo che unisce tutti i partiti populisti di estrema destra. Un successo così grande che solo tre partiti hanno aderito: Lega, Fratelli d’Italia e il Movimento per i Cambiamenti del Montenegro. Nessun segnale, invece, dai grandi giganti del populismo xenofobo europeo come il Front National o l’Alternative für Deutschland. Si vede che, sotto sotto, avevano già capito una verità che forse a certi nostri politici italiani ancora sfugge: il sovranismo con i Paesi degli altri non funziona. Anzi, porta solo grossi problemi.
L’ultima prova arriva dai 7,5 miliardi di dollari di dazi che la Casa Bianca applicherà sull’Europa a partire dal 18 ottobre. I dazi sono un’imposta indiretta che un Paese applica sui beni provenienti dall’estero per farli diventare più costosi e quindi meno competitivi, favorendo la vendita dei prodotti interni.
La decisione di Trump è legittimata dal punto di vista del diritto internazionale in base a una controversia fra Stati Uniti ed Europa che va avanti dal 2004, e ha le sue fondamenta nel “dominio dei cieli”. La disputa riguarda infatti la battaglia fra Airbus, il principale produttore europeo di aeromobili e Boeing, la più grande costruttrice statunitense. Nonostante le norme del commercio internazionale vietino ai Paesi di erogare sussidi per sostenere i rispettivi giganti dei cieli, sia alcuni Paesi europei sia gli Stati Uniti hanno sovvenzionato i due produttori, e dopo 15 anni, il WTO (l’Organizzazione mondiale per il commercio) ha dichiarato che entrambe le controparti hanno violato le norme che regolano il commercio internazionale. Gli Stati Uniti hanno deciso quindi di aggiudicarsi la prima contromossa, decidendo di imporre dazi sulle merci europee per un valore di 7,5 miliardi di dollari. Nel frattempo la commissaria europea per il commercio Cecilia Malmström ha dichiarato che se il presidente Trump andrà fino in fondo, anche l’Unione Europea imporrà dazi sulle merci americane come stabilito dal WTO, dando il via definitivo a una guerra commerciale da cui difficilmente qualcuno riuscirà ad uscire vincitore.
Se è vero che la scelta di Trump di imporre dazi sulle merci europee non è illegale secondo il diritto internazionale, è anche vero che si tratta di una scelta politica ben precisa: protezionista e nazionalista che rischia di mettere in ginocchio interi settori dell’economia europea, in particolare del nostro Paese. I dazi infatti andranno a colpire l’export italiano, il settore che più di tutti è stato il motore della debole, eppur presente, crescita economica degli ultimi anni. Come riportano i dati, con un saldo positivo di 44 miliardi di euro nel 2019, le esportazioni italiane tra 2008 e 2018 sono aumentate del 16,9%, arrivando a rappresentare il 32,1% del prodotto interno lordo, ovvero quasi un terzo della ricchezza prodotta in Italia.
È proprio questo tesoro che i dazi americani vanno a colpire. Nelle ultime ore si parla di circa 500 milioni di dollari di dazi solo per il nostro Paese, senza contare i danni indiretti che questo andrebbe a provocare. In particolare, negli Stati Uniti dovrebbe aumentare vertiginosamente il prezzo di molti prodotti dell’agroalimentare italiano: parliamo di agrumi, salumi, formaggi. In particolare il Parmigiano Reggiano, simbolo in tutto il mondo di italianità, rischia di vedere crollare i propri consumi del 90% sul suolo americano, secondo le stime del Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano. A rischio ci sarebbero anche i prodotti tessili. Attualmente, il danno stimato potrebbe arrivare a 1 miliardo di euro.
È chiaro che con queste cifre non si mettono a rischio soltanto i profitti delle aziende, ma soprattutto il lavoro di centinaia, se non migliaia, di lavoratori. Ma se per i sovranisti di casa nostra è questione di sicurezza nazionale un tortellino con il ripieno di pollo invece che con la carne di maiale per poter unire tradizione e integrazione (quando tutti dicono che ben presto dovremo smettere di consumare carne essendo tra i principali fattori inquinanti), nessuno di loro sembra voler alzare un dito quando i loro compagni nazionalisti mettono seriamente a repentaglio il bene dell’Italia. Infatti, non è la prima volta che questo succede.
Viktor Orbán, primo ministro ungherese, è un altro dei cavalli di razza del populismo xenofobo internazionale, acclamato da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni, che l’ha appena accolto al festival di Fratelli d’Italia ad Atreju. Eppure, Orban appartiene al PPE, ovvero allo stesso partito europeo dei grandi nemici dei sovranisti: Angela Merkel, Jean Claude Junker e Ursula Von der Leyen. Ma come diceva il Don Giovanni di Molière: “L’ipocrisia è un vizio di moda, e come tutti i vizi di moda passa per virtù.” Orban è venerato in Italia per la sua politica delle frontiere chiuse e del respingimento dei migranti, eppure proprio queste scelte per l’Italia sono state un enorme danno: l’Ungheria infatti si è rifiutata di accettare le quote di migranti proposte dalla Commissione europea, che avrebbero permesso di ridistribuire in maniera più equa le persone arrivate nel nostro Paese in cerca di aiuto. Inoltre, insieme agli altri Paesi del gruppo di Visegrad, l’Ungheria si è opposta alla riforma del regolamento di Dublino avanzata dal Parlamento europeo, che l’avrebbe modificato adottando una strategia più comunitaria e solidaristica, e quindi più favorevole al nostro Paese.
Il cortocircuito dell’internazionale sovranista non dimostra soltanto l’ipocrisia di questa fazione politica ma anche la pericolosità che si cela dietro alla loro visione del mondo. La narrazione che cercano di propinare ai cittadini è quella di un’alleanza di popoli egoisti ma amici, finalmente liberi dai lacci dell’Europa, un’alleanza che può tranquillamente gridare “Me ne frego!” di tutte le regole condivise.
La storia ci ha già insegnato a sufficienza che se gli stati inseguono esclusivamente il proprio interesse le conseguenze possono essere catastrofiche. Non serve ritornare alle due guerre mondiali, basta usare la logica. In un mondo complesso come quello in cui viviamo oggi, inevitabilmente gli interessi degli Stati divergono: dall’economia all’energia, dalle migrazioni alle nuove tecnologie. La presunzione di poter risolvere nel miglior modo possibile queste controversie senza un sistema di regole comuni e condivise a priori è imprudente e pericoloso. E come dimostra la vicenda dei dazi, a rimetterci per l’egoismo degli Stati e la malizia dei nazionalisti alla fine è sempre chi ha meno potere.
Proprio quelle regole comuni tanto vituperate dai nazionalisti sono in realtà la soluzione per tanti dei problemi che viviamo oggi. In una società sempre più interconnessa e veloce, i problemi diventano globali: cambiamento climatico, migrazioni, disuguaglianze economiche. Nessuno Stato è in grado di risolvere questi problemi da solo. Uno dei primi a scriverlo fu il sociologo Peter Singer, che con il suo libro del 2001 One world immaginava una comunità politica globale in grado di agire sui problemi che riguardano tutte le donne e gli uomini del pianeta. Più in piccolo, proprio l’Unione Europea, che alcuni sovranisti fino a poco tempo fa volevano distruggere è stato un vero e proprio volano per il nostro Paese sul tema del commercio, danneggiato invece dallo sciovinismo trumpiano. Ben 250 miliardi delle nostre esportazioni (più del 50 % del totale) sono destinate infatti al mercato europeo: un flusso in continua crescita, reso possibile dalle politiche europee e che ha effetti diretti e positivi sulla vita di milioni di individui.
La risposta alle sfide della contemporaneità non può essere la chiusura in se stessi e l’innalzamento dei muri, fisici o mentali che siano. I dazi di Trump lo dimostrano. Le politiche migratorie di Orbán pure. Il nazionalismo dei populisti del 21esimo secolo non fa altro che esacerbare le paure e l’insicurezza dei cittadini, andando a costruire un mondo dove egoismo diventa la parola d’ordine. Soltanto un approccio che sappia essere inclusivo e plurale, attento alle esigenze degli ultimi e dei più deboli, può essere la risposta. O lo capiremo, o il prezzo del parmigiano a New York sarà davvero l’ultimo dei nostri problemi.