La prima vittima del coronavirus è l’economia italiana
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Dopo aver contribuito a crearlo, la dirigenza politica ha chiesto di fermare il panico da coronavirus. Le conseguenze economiche per il Paese rischiano infatti di essere devastanti. “È il momento di abbassare i toni, basta allarmismi”, è stato l’appello del premier Giuseppe Conte, che deve essere sbiancato quando gli hanno trasmesso i dati su quel che sarà l’Italia una volta che l’hype da coronavirus verrà meno.

All’improvviso gran parte del Paese è infatti stata costretta a chiudere le serrande. Gli asili, le scuole, le università, gli stadi, i musei, i bar, le palestre, i cinema, gli uffici pubblici e molti altri esercizi hanno comunque dovuto sospendere molte delle loro attività, come corsi, presentazioni di libri e conferenze. Per le aziende private si è trattata di una scelta volontaria, ma per il resto il segnale di stop è arrivato dall’alto, attraverso appositi provvedimenti. La velocità con cui si è passati da un clima di normalità a una quotidianità di coprifuoco ci ha proiettati in uno scenario apocalittico, che ha messo in allarme ampie fette della popolazione. Orde di persone si sono trovate a spintonarsi tra le corsie dei supermercati per accaparrarsi l’ultima cassa di acqua, strade calpestate da migliaia di persone ogni giorno d’improvviso sono rimaste deserte, per non parlare di beni comuni come mascherine e amuchina che si sono trasformati in poche ore in beni di lusso.

La psicosi collettiva è stata senza dubbio il risultato della cattiva comunicazione di questo fenomeno, che certamente non andava sminuito, ma nemmeno era opportuno venisse raccontato nelle sue sfaccettature più tragiche, lasciando ai trafiletti nascosti o ai sottotitoli le informazioni più oggettive e rassicuranti  – ad esempio, la guarigione per il 95% dei contagiati, le complicazioni rispetto a determinate fasce ristrette della popolazione, il miglioramento della situazione in Cina con tanto di stabilimenti industriali che hanno riacceso le macchine, e gli appelli dei virologi su quella che non è altro che una patologia simil-influenzale.

La politica italiana, per motivi precauzionali, ha deciso per l’adozione di misure estreme dal primo momento del contagio. Scelte che possono sembrare comprensibili in alcune zone geografiche, molto meno in altre. I grandi media hanno capito di poter lucrare su questa situazione e non si sono fatti sfuggire alcuno spunto capace di amplificare la paranoia, ricordandoci che la vera epidemia non è il coronavirus ma il clickbaiting. Tra i reportage nella “Wuhan d’Italia”, le dirette 24 ore su 24 fuori dagli ospedali che ospitavano i malati, i droni perennemente in volo per mostrare il nulla cosmico della zona del contagio e la strumentalizzazione dei dati, quella che doveva essere l’informazione sull’epidemia si è trasformata in un enorme reality immersivo che ci ha visti tutti protagonisti, una gara mediatica a chi più riusciva a spingere in alto l’asticella dello show. Mentre la politica locale e la stampa alimentavano a braccetto la psicosi, che ha varcato i confini in barba alle frontiere chiuse e ha dato vita a una paura globale del Made in Italy, nei palazzi del potere si sono resi improvvisamente conto – forse anche a causa all’inevitabile crollo della borsa e l’invito ai cittadini stranieri da parte dei loro governanti di evitare di recarsi nel nostro Paese, con il conseguente crollo del turismo – che la situazione era sfuggita di mano. Il panico da coronavirus si è trasformato in panico per le conseguenze non più sanitarie, ma economiche. E il racconto politico dell’epidemia ha fatto segnare, almeno in parte, un’inversione a “U”: dai toni allarmistici a quelli rassicuranti, tanto che addirittura Burioni è stato invitato a scusarsi rispetto alle dichiarazioni fatte da Gismondo.

“Niente panico”, l’appello del premier Giuseppe Conte, con tanto di intimazione alla Rai a usare toni più cauti. “Nessuna sottovalutazione del coronavirus ma anche nessun panico”, la replica di Nicola Zingaretti. “Stop alla fake news sull’Italia”, la dichiarazione di Luigi Di Maio. La narrazione apocalittica continua a esserci, ma i toni rassicuranti hanno comunque guadagnato maggiore spazio sulla stampa nazionale. Questo perché l’impatto economico del coronavirus sull’Italia si è già fatto sentire, e la presa di conspevolezza è che la psicosi non farà altro che peggiorare le cose. Dall’agricoltura al commercio, passando per il turismo e le fiere di settore, d’improvviso sono andati bruciati miliardi di euro e lo scenario futuro non promette nulla di buono. Come ha sottolineato Coldiretti, la psicosi degli ultimi giorni ha messo ulteriormente in ginocchio un settore agroalimentare già in difficoltà a causa del  crollo dell’11% delle esportazioni in Cina. Le presenze negli agriturismi in settimana hanno fatto registrare un calo del 50%, mentre centinaia di aziende agricole nelle aree del contagio si sono dovute fermare, in un’area come quella padana la cui economia si basa in modo importante sull’agricoltura. “Non possiamo permettere che una paura sproporzionata blocchi Milano e la Lombardia, mettendo a rischio anche il lavoro nelle campagne e le nostre produzioni agroalimentari”, ha dichiarato Paolo Voltini, Presidente di Coldiretti Lombardia.

Anche il turismo, un settore che incide per il 12% sul prodotto interno lordo nazionale, vive oggi uno dei momenti più bui che si ricordino. A Milano ci sono state fino all’80% di cancellazioni e l’occupazione prevista per il mese di marzo è calata al 50%in città e al 40% fuori Milano, in un periodo dell’anno in cui le strutture ricettive hanno sempre avuto tassi superiori all’80%. A Roma si sono registrate fino al 90% delle cancellazioni alberghiere, con una perdita di oltre 3 milioni di euro al giorno. Discorsi simili anche per le altre grandi città d’arte italiane, da Venezia a Firenze, passando per Napoli. È il risultato delle scelte individuali delle persone, ma anche e soprattutto del clima di fobia che media e politica hanno creato e che si è proiettato oltreconfine. Le cancellazioni di molte tratte verso l’Italia da parte delle compagnie aeree internazionali, così come il divieto di ingresso agli italiani in Paesi come le Seychelles o la Giordania, sono il risultato di questa psicosi ormai globale.

A livello industriale e commerciale non va meglio. Confimprese ha registrato già una perdita del 30% nel retail solo nello scorso week end. 6mila lavoratori metalmeccanici lombardi, in questi giorni, intanto sono fermi nella produzione o vedono il loro orario lavorativo ridotto. Anche l’industria della moda subisce una battuta d’arresto, con il crollo delle esportazioni e del giro di affari interno – molte trasferte sono dovute essere annullate – e anche a causa del calo del turismo. Il presidente di Camera Moda, Carlo Capasa, già a inizio febbraio parlava di un crollo dell’1,8% dei profitti nel settore, un numero destinato a crescere in queste settimane. A essere colpite sono state in particolar modo le vetrine del settore, cioè i grandi eventi nazionali rinviati o cancellati che ogni anno attirano gente da tutto il mondo (basti pensare che l’allarme è arrivato nel bel mezzo della fashion week milanese).

Carlo Capasa

La stessa cosa è avvenuta per il Salone del Mobile, al momento soltanto rinviato a giugno, ma per cui le incognite restano. Come ha spiegato Emanuele Orsini, presidente di FederlegnoArredo, in caso di cancellazione dell’evento l’impatto sul Pil sarebbe di almeno 1-1,3 miliardi di euro. L’industria delle fiere va in effetti ben al di là dell’evento in sé, si tratta piuttosto di un volano per il territorio. Come ha spiegato Francesca Golfetto, docente di marketing all’Università Bocconi di Milano, “Quando salta una fiera, ci sono due impatti: uno sul territorio locale, in termini di indotto, quindi hotel, ristoranti, taxi, organizzazioni turistiche, società di comunicazioni e di eventi. Si calcola che sul territorio l’impatto valga 10-15 volte l’impatto economico della fiera. E questo si perde tutto e subito. Il secondo impatto è sul business, cioè le vendite perse”.

In generale il problema è che la zona principale del contagio, e dunque quella che più si trova in ginocchio a livello economico in questi giorni, è anche l’area trainante dell’economia del Paese. Lombardia e Veneto valgono per il 31% del Pil e da lì parte il 40% delle esportazioni. Non stupisce allora che quello che si prospetta sembra avere i tratti del dramma economico nazionale. Il clima di incertezza si è infatti immediatamente riflesso anche sui mercati finanziari. Nel lunedì nero, la Borsa ha perso il 5,4% bruciando 30 miliardi. Secondo Confesercenti, la perdita economica in termini di consumi a livello nazionale sarà di 3,9 miliardi e si potrà arrivare alla perdita di circa 60mila posti di lavoro e la chiusura di 15mila piccole e medie imprese. Confcommercio ha stimato una perdita di 5-7 miliardi di euro in caso lo stato di crisi prosegua fino a maggio, mentre da Bankitalia si prevede la riduzione del Pil dello 0,2% nell’arco di un anno.

Proprio in virtù dei danni provocati dallo stop all’economia, il titolare del Mise Stefano Patuanelli ha stilato, insieme alle categorie produttive, una lista di interventi volti a facilitare il ritorno alla normalità dei territori che rientrano nella zona rossa. Queste prevedono, tra le altre cose, anche il rafforzamento del fondo per le Pmi, la sospensione dei pagamenti dei premi assicurativi, delle bollette e dei diritti di segreteria dovuti alla Camera di Commercio, la proroga di tutti i bandi aperti per l’accesso agli incentivi offerti dal Ministero dello Sviluppo Economico, oltre che la sospensione delle rate dei mutui per imprese e famiglie.

Una crisi psicotica prima ed economica poi. Se parte delle perdite si sarebbero forse comunque verificate, molte altre derivano invece dal risultato di una narrazione mediatica alterata. L’Italia si è trasformata in poche ore in un lazzaretto da cui tenersi lontani. Questo nonostante i contagi siano arrivati anche in altri Paesi e la diffusione della notizia che la seconda vittima francese non fosse mai stata in nessuna delle zone colpite dall’epidemia. Inoltre, virologi come Ilaria Capua hanno sottolineato come il virus sia stato trovato in modo occasionale e quindi potrebbe in realtà essere in circolazione già da tempo: una teoria che, se vera, confermerebbe che l’improvvisa psicosi da cui siamo stati investiti non ha senso. E se oggi a livello di esecutivo si sta cercando di correggere il tiro, consapevoli che l’unico vero disastro tangibile, quello economico, deve ancora venire, c’è chi continua ad alimentare irresponsabilmente la paranoia, solo per il proprio tornaconto. Dal video in mascherina (inutile) del governatore leghista lombardo Attilio Fontana, alle sedute parlamentari o comunali da parte di esponenti di Fratelli d’Italia e Forza Italia, fino al sindaco leghista di Saronno sul “rischio 1200 morti”. E poi c’è Salvini, probabilmente il politico che ha cavalcato maggiormente la psicosi, e che ora la vuole usare come arma per tornare al governo. Mentre c’è chi cerca di spegnere l’incendio o di tornare sui suoi passi, resosi conto dell’impatto della paura sull’economia, l’opposizione di destra preferisce andare avanti sulla strada del terrorismo psicologico, in quella dialettica del terrore che su altri temi ha già dimostrato di ripagare a livello elettorale. Non è un caso che secondo un sondaggio delle ultime ore ad avere più timori per la situazione coronavirus italiana siano proprio gli elettori della Lega.

Attilio Fontana

Il problema è con ogni probabilità, stando a quanto dicono gli esperti, ci saranno più danni per la crisi economica generata dal panico, che non per l’epidemia in sé. La perdita dei posti di lavoro, la riduzione delle risorse destinate al welfare, lo stigma che si porterà dietro a lungo a livello internazionale un’Italia che si appresta a registrare un Pil sottozero, saranno il vero dramma del coronavirus. E se quest’ultimo sembra essere destinato a risolversi o comunque a essere contenuto in poco tempo, gli effetti della sua narrazione resteranno a lungo. Nel 430 a.c. Atene fu colpita da una violenta epidemia di peste, ma a far degenerare la situazione in città non fu la malattia, bensì la paura che generò. Gli abitanti trasformarono radicalmente il loro modo di vivere, leggi e antiche tradizioni smisero di essere rispettate e a farla da padrone fu la nuova legge del panico. Atene non crollò per la peste, ma per paura della peste. Lo stesso, con le dovute proporzioni, è ciò che sta avvenendo oggi in Italia. I responsabili sono quelli che di professione dovrebbero informarci e garantire l’ordine pubblico: media e classe politica, che invece, per mere strategie elettorali e di profitto, hanno alimentato il panico fin dagli albori. E purtroppo non è detto che  dietrofront – parziale – di queste ore sarà sufficiente per rimediare al disastro annunciato.

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