I curdi non esistono. Sono più di 40 milioni, ovvero il doppio degli abitanti di tutta la Scandinavia, ma il mondo intero continua a ignorarli da secoli. Il Kurdistan non è uno Stato riconosciuto, la loro lingua non può essere usata e il popolo è estromesso da qualsiasi attività pubblica nei Paesi dove vengono considerati degli intrusi. Sparsi in quelle terre di confine tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, negli ultimi anni la comunità internazionale si è ricordata di loro per usarli come scudi umani contro l’Isis. Sembrava una battaglia persa in partenza, ma la popolazione curda – quella che non esiste – è riuscita a organizzare una resistenza inaspettata, schierando anche le donne in prima linea, fino a privare l’Isis di gran parte dei territori conquistati nel 2015. Nonostante il successo, non si può parlare di una guerra definitivamente vinta: le forze dello Stato islamico non possono più contare su una base territoriale, ma hanno ancora migliaia di combattenti pronti ad approfittare del caos politico per tentare una nuova avanzata e organizzare altri attentati, anche su suolo europeo. Questo diventa un rischio concreto ora che gli Stati Uniti non hanno più bisogno dei curdi e la Turchia è pronta all’attacco. Il popolo invisibile è stato di nuovo tradito.
Tutto è cominciato con un comunicato diffuso il 6 ottobre dalla Casa Bianca in cui viene annunciata la nuova strategia statunitense in Siria: ritiro immediato delle truppe nella zona nord-est, quella presidiata dai curdi siriani, lasciando di fatto il campo libero alla Turchia e alla sua volontà di invadere l’area. Erdoğan ha infatti intenzione di occupare quei territori per creare una safe zone ed estromettere i curdi, considerati alla stregua di una minaccia terrorista. Questa fascia di territorio, 400 chilometri a est del fiume Eufrate, verrebbe usata dal presidente turco Erdoğan per rimandare indietro tutti i profughi siriani entrati in Turchia nel corso degli ultimi 8 anni di guerra civile. In pratica, Erdoğan ha ottenuto il beneplacito di Trump per attaccare il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta all’Isis.
Il tradimento è cocente proprio perché l’amministrazione Trump aveva promesso protezione ai curdi appena due mesi fa, in cambio dello smantellamento delle postazioni di difesa costruite dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane) al confine con la Turchia. Dopo aver obbedito, e dopo anni di guerra contro l’Isis, il regalo degli Stati Uniti ai curdi è stato quello di defilarsi per non contrastare l’offensiva militare di Erdoğan.
In seguito all’indignazione (seppur tiepida) da parte della comunità europea e dell’Onu e allo sdegno delle Sdf, che hanno paventato anche l’ipotesi di trovare nel presidente siriano Bashar al-Assad una protezione alternativa, Trump ha fatto una parziale marcia indietro. La Casa Bianca l’8 ottobre ha dichiarato che il ritiro delle forze statunitensi in Siria riguarderà soltanto un centinaio di unità delle forze speciali e che non ci sarà alcun loro coinvolgimento nell’operazione militare di Erdoğan. Trump, su Twitter, ha provato a rassicurare i curdi mostrandosi solidale, almeno a parole. Il messaggio che però trapela dal comunicato è chiaro: gli Stati Uniti non si opporranno all’attacco della Turchia contro i curdi.
Allo stesso tempo il ministero della Difesa di Ankara ha confermato che “Tutte le preparazioni sono state completate per l’operazione militare contro le milizie curde”. D’altronde, gli obiettivi della Turchia in Siria sono sempre stati quelli di un’espansione a scapito delle minoranze. Se la guerra con Assad rientra nell’ottica di una lotta per la supremazia regionale, quella contro i curdi è lo strascico di un conflitto secolare che dura dai tempi degli Ottomani.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, culminata con la sconfitta dell’Impero ottomano e la sua dissoluzione, i curdi speravano finalmente di ottenere la loro autonomia, soprattutto appoggiandosi al Trattato di Sèvres (1920) sul diritto alla costruzione di uno Stato nazionale. Il successivo Trattato di Losanna (1923) fu però siglato sotto la pressione del governo turco, che riuscì a ottenere nuovamente il controllo sui territori occupati dai curdi. Nei decenni successivi furono numerosi i loro tentativi di diventare una nazione indipendente. Furono tutti repressi nel sangue, sia durante gli scontri ai confini turchi dopo la creazione del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che durante la Guerra del Golfo, per mano del dittatore iracheno Saddam Hussein. Va avanti da decenni la discriminazione e la persecuzione del popolo curdo, a cui è vietato l’uso della sua lingua e quindi negato un elemento di coesione fondamentale per lo spirito nazionale di un popolo, una vera e propria repressione etnica.
Nonostante la violenta opposizione contro il diritto all’autodeterminazione del Kurdistan, i curdi sono riusciti negli anni a creare una struttura democratica che rappresenta un’eccezione nel Medio Oriente, e da cui persino le nazioni occidentali dovrebbero prendere esempio. Il progetto politico nasce dal sogno di Abdullah Öcalan di avviare una rivoluzione socialista nel Medio Oriente, motivo per cui le basi ideologiche del Pkk, fondato nel 1978, si rifanno al marxismo-leninismo. Nonostante diverse contraddizioni interne e una lotta armata che spesso ha oltrepassato il confine tra resistenza e violenza, l’esperienza del Pkk ha gettato le fondamenta per il confederalismo democratico nel Rojava, il territorio che comprende i cantoni di Kobane, Afrin e Cizre. È anche questa visione politica dei curdi a spaventare la Turchia e parte dell’Occidente: la costruzione di una democrazia basata sulla lotta al capitalismo, sul rispetto per l’ambiente, sull’internazionalismo e sulla parità di genere.
Riuscire a mettere in piedi questo modello nonostante una condizione di conflitto permanente, rappresenta il più grande orgoglio del popolo curdo. Il cambiamento parte dalla diffusione della Dichiarazione per il Confederalismo Democratico nel Kurdistan, un testo del 2005 che lega la liberazione dei curdi all’affermazione dei diritti individuali e alla libertà di espressione. Il manifesto trae ispirazione da modelli come l’ecologia sociale e il municipalismo libertario di Murray Bookchin e l’esperimento della Comune di Parigi del 1871. Il manifesto prevede infatti una democrazia dal basso con la costituzione di assemblee popolari nei villaggi e la presenza della Mala Jin, la casa della donna, il luogo in cui viene fornito sostegno alle donne vittime della violenza maschile. L’abolizione del patriarcato è infatti un aspetto fondamentale del Confederalismo Democratico, a partire dalla creazione delle Ypj (Unità di protezione delle donne), che ha fronteggiato i jihadisti e che continua a difendere il popolo curdo. Le donne nel Rojava sono indipendenti e ricoprono spesso posizioni di comando, partecipando in modo attivo alla vita politica e sociale: una realtà inaccettabile per una Turchia sempre più sottomessa all’ortodossia islamica per volontà del presidente Erdoğan e del suo partito Giustizia e Sviluppo (Akp).
Un aspetto rivoluzionario nella struttura del Confederalismo Democratico riguarda la giustizia. Secondo i principi del sistema giuridico curdo, la persona arrestata non è un criminale da sbattere in cella, ma un individuo da riabilitare. Così le prigioni sono diventate delle istituzioni educative e soprattutto negli ultimi anni il numero dei reati è diminuito. Un altro degli aspetti fondativi del progetto politico curdo è la protezione dell’ambiente, come dichiara Ahmad Yousef, consigliere del Comitato ecologico ed economico del Nord Est della Siria. In tal senso i curdi vedono il neoliberismo come un modello insostenibile che mira all’arricchimento di pochi gruppi di potere al prezzo di una devastazione ambientale insostenibile.
Con il voltafaccia di Trump i curdi si ritrovano nuovamente in pericolo, dopo la breve tregua dopo la guerra contro l’Isis e la falsa speranza di poter coltivare il loro Confederalismo Democratico fuori dalle logiche belliche. Gli interessi politici sono enormi: la Turchia fa parte della Nato ed è un alleato chiave degli Stati Uniti in Medio Oriente, motivo per cui le rassicurazioni di Trump su Twitter non bastano a garantire un periodo di pace per i curdi, soprattutto perché l’azione di Erdoğan non sarà fermata. Il rischio di un ritorno delle attività jihadiste in Siria e anche in Europa è enorme, così come quello di un’ulteriore frammentazione del popolo curdo. Sul tavolo internazionale pesa anche il ruolo della Russia nell’appoggio ad Assad, con Putin che in cambio ha ottenuto la base navale di Tartus e quella aerea di Latakia. Le mosse di Trump ed Erdoğan sono un azzardo che la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi a fermare, per non sacrificare la dignità di un popolo e la sicurezza di Europa e Medio Oriente in favore del profitto e dei loro interessi politici.
L’Occidente deve acquisire una nuova consapevolezza sulla questione curda. In Italia, se non fosse per l’attenzione data a Kobane Calling, l’opera di Zerocalcare, l’attenzione sui curdi sarebbe ferma all’arresto di Öcalan a Roma nel 1998. Sono passati più di vent’anni, ma i curdi continuano a essere perseguitati e umiliati, mentre la loro condizione rimane quella di un popolo mai riconosciuto da nessuna istituzione internazionale, utile soltanto da sfruttare durante il conflitto di turno: contro l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale per conto di Francia e Gran Bretagna e contro l’Isis un secolo più tardi. È tempo di aprire gli occhi e di non essere complici di un’ingiustizia che grava da secoli su un popolo reale, fatto di persone in carne ossa.