Aprire un social qualsiasi ormai mi mette ansia, specialmente a dicembre. Non solo per le troppe notizie negative, le solite opinioni non richieste o per la febbre da bilanci, ma anche per le routine – spesso assolutamente irrealistiche – che Youtube, TikTok e simili ci propinano come soluzione per stare bene, migliorarci e prendersi cura di sé, ricordandomi tutto quello che non sto facendo per me stessa. Non bastava il self-care: adesso la parola magica è glow up, espressione di un upgrade con cui gli utenti social, di solito donne molto giovani, con strategiche foto del “prima” e del “dopo”, mostrano il loro nuovo Sé, solitamente ottenuto non grazie alle tanto acclamate routine che diffondono ma con qualche ora di trucco e parrucco, filtri e post produzione. Le costanti di questo più o meno presunto lavoro su di sé mostrato online sono product placement e sponsorizzazioni, mentre sembra non trovare spazio il potente significato politico che la cura può avere: ed è questo che dobbiamo recuperare.
Chiaro che, provati da un intero anno – per non dire ormai tre – di ansie e preoccupazioni, in attesa delle desiderate vacanze, è difficile resistere al canto ipnotico del marketing che ci spinge ad aprire il portafogli, perché ce lo meritiamo (sì, ancora la retorica del merito). Diversi studi psicologici infatti dimostrano che quanto più siamo stressati e sopprimiamo i nostri bisogni fondamentali, tanto più siamo propensi a comprare, come pure a mangiare in modo impulsivo cibi ricchi di grassi e zuccheri. Praticamente la descrizione di quello che il Natale è oggi, con il suo shopping forsennato al quale arriviamo direttamente dopo Singles’ Day – una trovata di marketing che fa leva sulla rivendicazione del potere d’acquisto da parte dei single, ideata in Cina, dove la pressione sociale a formare una famiglia tradizionale è ancora molto forte – e Black Friday.
Così, spesso finiamo per spendere e lasciamo che aziende, brand, start up e liberi professionisti siano gli unici a rispondere a un bisogno di cura che emerge con urgenza non a caso in un’epoca come questa, ossessionata da produttività e competizione, per proporci prodotti per la skincare, corsi online di yoga, mindfulness e meditazione e i fitness influencer: tutti con l’obiettivo di prendersi cura di sé. Possono essere strumenti validi, ma il rischio di essere subissati di questi prodotti è di acquistarli d’impulso senza avere poi voglia, tempo e costanza per beneficiarne: in fondo, forse non abbiamo bisogno dell’ennesima crema viso o di un altro corso online. Il solo mercato mondiale legato a yoga e meditazione nel 2022 valeva più di 5mila milioni di dollari e per i prossimi quattro si stima una crescita percentuale media di quasi il 14%: il successo di questi servizi è espressione della necessità reale di tornare a contatto con il proprio io e di trovare uno spazio di quiete dal costante rumore di fondo del mondo.
Queste meritate coccole, che siano un massaggio o un siero che promette l’incarnato di una studentessa coreana, possono sembrarci la soluzione, ma spesso non sono che un pretesto per sottostare agli standard estetici; il sottotesto è che se non li raggiungiamo, allora non ci siamo presi cura di noi stessi: ecco che anche la cura diventa una performance, una casellina da spuntare in agenda, rischiando così di avere l’effetto opposto a quello sperato, facendoci sentire ancora più stressati e oppressi dai doveri quotidiani. Il senso di colpa è dietro l’angolo: pensiamo di meritare qualcosa solo se ci impegnamo abbastanza, facciamo gli straordinari in ufficio o sudiamo tra bilancieri e planck; proprio la palestra è un esempio di questo paradosso: anziché una pratica di benessere è spesso vissuta come un dovere.
Per questo ci sentiamo legittimati a “concederci” qualcosa che desideriamo se è qualcun altro a dirci che quel tempo per noi ce lo siamo guadagnato e che quei soldi sono ben spesi, e sempre per questo l’idea di auto-regalo fa breccia; in fondo, oggi sappiamo – e lo sanno le giovani donne, prima destinatarie di gran parte delle campagne pubblicitarie – che non abbiamo bisogno che sia qualcun altro a regalarci un completino sexy per Natale. Emanciparsi significa (giustamente) anche poter spendere per se stesse, ma la cura di sé non può essere ridotta agli oggetti materiali, con cui cerchiamo di compensare le mancanze di tempo e di attenzione ai nostri bisogni e al nostro stato mentale.
Proprio questi, invece, possono essere alcune espressioni di cura, che spesso non implica nemmeno una spesa, ma molte energie fisiche e mentali, riguardando innanzitutto la sfera della relazione e quella dell’azione. È cura di sé, infatti, anche – soprattutto – la difesa del proprio tempo libero e dei propri diritti, la rivendicazione di una paga giusta per una vita dignitosa e piacevole; è un atto di cura di sé la pretesa di tempo per coltivare le proprie passioni, come lo è il cercare un rapporto equilibrato con il proprio corpo, facendo attenzione alla propria salute psicofisica – per esempio con gli esami di screening, gli accertamenti medici e un’alimentazione sana, oltre ovviamente all’attività fisica, a un percorso di analisi, ed eventualmente alla pratica della meditazione. Questo significa, quindi, che, se la possibilità di accedere agli strumenti di cura non è garantita, allora è un atto di cura anche pretendere che lo Stato se ne occupi. In questo senso la cura di sé è anche cura della comunità, lo strumento più efficace contro il senso di solitudine dilagante, e ha poco a che vedere come un premio per essere stati bravi al lavoro.
Come ha scritto qualche tempo fa la pedagogista e politica Vanna Iori su Vita, infatti, “le scelte che riguardano la cura non sono quindi mai neutre, presuppongono sempre l’assunzione di responsabilità (di cura come di governo), nel prendere posizione in vista di determinati fini e sulla base di valori, principi, ideali, speranze, investimenti economici che si traducono in progetto, scelta, impegno, rischio, coraggio”. Insomma, il privato è politico. Non a caso molti movimenti femministi lavorano proprio su questi concetti, a partire dalla rivendicazione di un ruolo di cura condiviso e democratico, non demandato alle sole donne; già le pratiche di autocoscienza del femminismo negli anni Settanta ci avevano a che fare, poiché l’analisi e l’ascolto del proprio intimo fanno emergere le proprie contraddizioni e i propri veri bisogni; il fatto stesso di praticare l’autocoscienza in uno spazio collettivo, poi, porta anche alla scoperta dell’altra e, quindi, della comunità, come fatto per esempio dal movimento Black Panther Party, che ha operato varie forme di assistenza comunitaria, solidarietà e resistenza contro le difficoltà imposte dalla segregazione razziale.
In modo analogo, anche nell’attivismo ambientalista la cura e la cura di sé, perseguite in modo autentico e non consumistico, sono strumenti di resistenza contro il sistema capitalista. Come sottolinea il filosofo Vincenzo Pepe, l’ambiente siamo noi e l’ambiente lo facciamo noi, nel bene e nel male. Lo rimarca a suo modo anche la pedagogista Luigina Mortari, secondo la quale, seguendo l’approccio ecologico l’educazione all’aver cura non deve essere intesa come un occuparsi solo di sé, ma come promozione di un orientamento di cura che si estende al mondo di cui si è parte, nel rispetto della natura relazionale dell’essere umano; e proprio l’atteggiamento di ascolto contribuisce a sviluppare una modalità diversa di relazionarsi con il mondo, che sarà premessa all’incontro con l’altro, a sua volta una via per abitare il Pianeta, la nostra casa comune fondata su responsabilità e solidarietà. Difesa dell’ambiente, della comunità e dell’individuo, infatti, sono elementi indissolubili: basti pensare alla lotta per garantire acqua e aria pulite per tutti o anche al concetto di One Health, l’approccio promosso dall’Oms per un equilibrio sostenibile tra salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi.
Se, come rileva ancora Mortari, fino a qualche anno fa si parlava di cura solo in termini sanitari o di cure domestiche nei confronti di bambini piccoli o anziani non autosufficienti, non possiamo accettare che oggi a ricordarci che possiamo e dobbiamo dedicarci noi stessi siano solo le pubblicità e che l’unico modo per farlo sia comprando qualcosa e rafforzando la narrativa dell’investimento su di sé, che in fondo è finalizzato a diventare più performanti e vincenti. In questo senso la vera cura implica che si parta dal proprio io per riscoprirsi parte di una società, di un gruppo, al quale l’attenzione, l’ascolto, l’accoglimento – in definitiva, la cura – si deve estendere. Perché noi stessi siamo la nostra prima relazione, il mezzo tramite cui situarci nel mondo.
Il problema è che per praticare la cura di sé bisogna avere la capacità, il modo e il tempo di ascoltarsi e analizzarsi criticamente. Vorrei che la pausa natalizia dagli impegni mi desse questo tempo, per non cadere preda di un marketing capace di convincermi che saranno un costoso siero illuminante o un nuovo paio di scarpe a farmi cambiare in meglio e farmi sentire in grado di realizzare i buoni propositi per l’anno nuovo, o che siano l’unico modo per prendermi cura della mia persona. Se da un lato non ci dobbiamo sempre sentire in colpa quando compriamo qualcosa, vale anche la pena riflettere sul significato degli acquisti fatti come compensazione alle mancanze che sentiamo in altri ambiti della nostra vita, o per sfogare uno stress eccessivo che non lascia spazio all’ascolto dei nostri bisogni e desideri. Sarebbe utile recuperare il senso più autentico della cura di sé e trovare la forma che fa per noi, rigettando quella imposta dalla narrazione dominante, dalla pubblicità e dal consumo come solo modo di affermarci.