Musei, cinema e teatri sono luoghi essenziali di condivisione sociale. Dovremmo ripartire da loro. - THE VISION

La pandemia sembra aver dato il colpo di grazia a un settore che in Italia è già in affanno da tempo: quello della cultura, dell’arte e dello spettacolo. Un settore reso precario da decenni di disinteresse e negligenze oltre che dall’applicazione di leggi che nel tempo hanno sempre e solo mirato al profitto e mai alla sua stabilizzazione e strutturazione.

Anche le soluzioni che il governo ha introdotto subito dopo il primo lockdown per aiutare il settore, seppur di natura emergenziale, si sono rivelate ben presto insufficienti e inadatte, come accaduto nel caso delle misure di sostegno all’occupazione e al reddito, che richiedevano requisiti impossibili, vista la peculiarità di un settore caratterizzato da forme di occupazione atipiche, contratti freelance, intermittenti o ibridi. Tutto questo accadeva mentre in Paesi come Regno Unito, Norvegia e Germania i governi sostengono il settore con la creazione di fondi di intervento ad hoc.

Per esempio, in Germania, uno dei Paesi che più ha investito in sostegni al settore culturale durantela pandemia, con il programma Neustart Kultur sono stati stanziati 540 milioni di euro per il mantenimento e il rafforzamento delle infrastrutture culturali e 250 milioni per sostenere la riapertura una volta superata l’emergenza sanitaria. In Italia, invece, sembra che nonostante tutti si siano resi conto di quanto fossero vitali l’arte, lo spettacolo e la cultura – compresa la politica – e nonostante avessimo trascorso intere giornate a fruirne guardando dirette di concerti su Facebook, teatro online o facendo tour virtuali nei musei, una volta passata l’euforia iniziale dei concerti dai balconi, il settore culturale è tornato in secondo piano nelle priorità del Paese.   

Pur essendo un motivo di vanto e di lustro in tutto il mondo, e nonostante da tempo si discuta di riportare la cultura e il patrimonio artistico del Paese al centro del dibattito e dell’interesse nazionale, il settore artistico e culturale italiano non se la passa certo bene, e se c’è una cosa che la pandemia ha sicuramente fatto emergere è che la cultura, l’arte e lo spettacolo, oltre a non essere una priorità dalle istituzioni non sono considerati servizi essenziali. A prescindere dalle criticità degli ultimi anni, o dal fatto che i luoghi della cultura e dell’arte sono stati i primi a essere chiusi e gli ultimi a venire riaperti, appare sempre più chiaro quanto pesi sull’intero settore l’idea sbagliata che “con la cultura non si mangi”. Una convinzione estesa, diffusa e tutta italiana saldamente radicata nell’opinione pubblica e istituzionale, che ha fatto sì che negli anni considerassimo il lavoro artistico e culturale un non-lavoro, che ci fa sembrare assurdo che si possa pagare per una prestazione artistica e che ci ha abituati nel tempo a pensare che teatri, gallerie d’arte e sale da concerto siano lussi accessori, componenti frivole di cui la società può tranquillamente permettersi di godere solo se è ricca, oppure, in ultima istanza, solo una volta che ha pagato per le cose veramente importanti per la sopravvivenza – individuale e collettiva.  

A differenza di quanto avviene in altri Stati, in Italia, infatti, manca un vero meccanismo pubblico a sostegno della cultura, un sistema che ne garantisca libertà di sperimentazione e varietà di produzione: i pochi che lo fanno, nella maggior parte dei casi privati, associazioni e spazi autonomi, sono sempre più piccoli e costretti a confrontarsi con le logiche commerciali, facendo della cultura un servizio sempre più povero, esclusivo e di nicchia, e non pubblico come dovrebbe invece essere e come, tra l’altro, è sancito dalla Costituzione. Negli anni è stato prodotto una sorta di diffuso appiattimento culturale, dal momento che questo sistema ricade e incide in primo luogo sulla sperimentazione per cui chiunque – dai singoli, alle associazioni, agli addetti del settore – è costretto a piegarsi e a sottostare alle regole del mercato semplicemente per poter andare avanti e sopravvivere.  

Lo scorso luglio il Consiglio dei ministri ha approvato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il programma che stabilisce le modalità di spesa dei fondi del Next Generation EU, il programma europeo che ha messo a disposizione 750 miliardi di euro ai Paesi membri più colpiti dalla crisi portata dalla pandemia. L’Europa ha assegnato all’Italia un totale di 191,5 miliardi di euro da investire entro il 2026. Un finanziamento epocale per i fondi stanziati e per gli obiettivi che l’Italia attraverso di esso si pone. Suddiviso in sei missioni – ognuna delle quali riguardante settori utili a generare crescita occupazionale e funzionale alla transizione ecologica e digitale – il Pnrr mira alla ripartenza con una serie di azioni congiunte in diversi settori. 

La prima delle missioni, “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura” per la quale sono stati stanziati 40,32 miliardi comprende anche misure per “Turismo e Cultura” per un totale 6,675 miliardi di euro. Di questi, un miliardo e mezzo provenienti dal fondo complementare saranno investiti nei 14 progetti del Piano Strategico Grandi Attrattori Culturali. Le principali linee guida del governo per rimettere al centro la cultura riguardano la promozione e la trasformazione digitale del patrimonio culturale del Paese, la modernizzazione delle infrastrutture, materiali e immateriali e la rimozione di barriere architettoniche, il miglioramento dell’efficienza energetica di cinema, teatri e musei, la rigenerazione di piccoli siti culturali e la messa in sicurezza sismica di alcuni luoghi. Circa 155 milioni del Piano di interventi, infine, saranno utilizzati per favorire la ripresa dei settori culturali e creativi promuovendo la domanda e la partecipazione culturale, incentivando l’innovazione e la transizione tecnologica e green degli operatori e la partecipazione attiva dei cittadini. Si tratta di un’opportunità per il Paese e certamente manifesta la volontà di mettere al centro della ripartenza anche la cultura, ma forse, oltre agli investimenti necessari al supporto “tecnico” del settore, bisognerebbe introdurre azioni strategiche per ribaltare gli schemi che abbiamo conosciuto fino a oggi, ripensando il rapporto tra cultura e politica e quello tra cultura, società e benessere. 

Sarebbe necessario avviare una riflessione strutturata sul modo in cui intendiamo e vogliamo intendere il lavoro culturale e il settore dell’arte e dello spettacolo nel nostro Paese, cominciando a considerare la cultura come un un servizio essenziale, perché a tutti gli effetti lo è: riguarda il benessere sociale e i valori condivisi, ma soprattutto la capacità di riuscire a immaginare e costruire un futuro diverso mettendo in discussione i nostri preconcetti e la visione radicata delle cose, insinuando il dubbio che altre soluzioni alle sfide più diverse siano possibili. I musei, i teatri, i luoghi della cultura non sono solo spazi che ospitano e custodiscono la nostra Storia, ma potrebbero essere laboratori aperti in cui alimentare il dibattito e il pensiero critico. È da qui che dovremmo ripartire: considerando la cultura, l’arte e i luoghi a loro deputati come presidi essenziali di condivisione sociale.

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