In un mondo precario non possiamo più “essere” solo il lavoro. Quindi ora dobbiamo capire chi siamo. - THE VISION
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Che per ciascun individuo ci sia una profonda connessione tra il mondo del lavoro – che ne definisce il ruolo all’interno della società – e la propria identità, è qualcosa di evidente. Non è un caso che, fino all’introduzione delle carte d’identità elettroniche, uno degli elementi utilizzati per identificare una persona poteva essere il suo mestiere. La scelta di eliminare questa dicitura risale al 2015 e ha rappresentato uno sviluppo apparentemente spontaneo, dato che ai fini dell’identificazione ormai il lavoro che si svolge è piuttosto inutile. Tuttavia, questa è una decisione che suggerisce una riflessione interessante. Infatti, oggi, a causa delle trasformazioni del mondo del lavoro, è sempre più difficile che il mestiere di una persona rappresenti una componente stabile della sua identità, anche se nel sentire comune questa percezione resta spesso ancora ben radicata.

Il concetto di “posto fisso” è qualcosa che, a partire dal dopoguerra, ha rappresentato concretamente la carriera lavorativa di molti italiani. Non è difficile individuare parecchie persone appartenenti a quella generazione che hanno iniziato e concluso il proprio percorso nel mondo del lavoro nello stesso posto e con lo stesso ruolo. Una scelta inserita anche all’interno di una realtà storica profondamente diversa, in cui la ricerca di stabilità sociale ed economica era elevata e considerata a un vero e proprio valore sociale. Qualcosa che, oggi, sembra ormai quasi inverosimile. E se la crescente precarietà lavorativa è un dato di fatto che non rappresenta certo una novità, va da sé quanto, per i ragazzi, approcciarsi al mondo del lavoro carichi dell’enorme quantità di incertezze che la realtà attuale impone rappresenti una sfida tremenda. Anche e soprattutto dal punto di vista identitario.

Lo è specialmente per quella fascia d’età che va dalla preadolescenza alla giovane età adulta in cui, in accordo con lo psicologo Erik Erikson, avviene a tutti gli effetti la ricostruzione della nostra identità in seguito alla precedente demolizione di quella infantile. È il periodo in cui i ragazzi sentono l’esigenza di capire chi sono e, soprattutto, chi saranno. Un’insistente ricerca di risposte che inizia già nella scuola secondaria di primo grado, quando si affronta il tema della scelta di una scuola superiore: il primo scontro con la necessità di intraprendere una strada individuale. E se già di per sé operare una scelta di vita a quattordici anni rappresenta una sfida davvero complessa e forse prematura, lo è ancor di più se ci si rende conto che il percorso di fronte a sé rischia seriamente di essere meno definito del previsto. Per questo, in un orizzonte sociale in netto contrasto con l’esigenza di trovare certezze, un adolescente sente sempre più l’urgenza di essere aiutato a prendere coscienza della precarietà di questa realtà sociale, totalmente diversa rispetto al passato.

Il problema dell’identità sociale è una questione estremamente moderna. Come scrive la psicologa e psicoterapeuta Anna Oliverio Ferraris nel suo La costruzione dell’identità, “[un tempo] l’identità aveva radici nel lignaggio e nel nome di famiglia: una forma di identificazione storicamente molto antica ma presente ancora oggi in molti contesti. Uomini, donne, bambini e anziani avevano doveri, diritti e ruoli diversi, codificati e condivisi. L’identità era un tratto stabile non soggetto a discussione”. All’interno di una società che non consentiva all’individuo di cambiare si generava una situazione di grande rigidità che non lasciava alcuno spazio alle crisi d’identità e al tema dell’autorealizzazione. Nel mondo capitalista, è stato solo con la centralizzazione dell’individuo che l’immagine di sé all’interno della società ha iniziato a rappresentare un problema da risolvere. Una crisi dell’Io riscontrabile, tra Ottocento e Novecento, anche nelle testimonianze letterarie occidentali. Su tutti Luigi Pirandello, che all’interno di opere come Uno, nessuno e centomila o Il fu Mattia Pascal ha saputo indagare e rappresentare questo problema dell’identità con cui l’uomo novecentesco si trovava all’improvviso a fare i conti, scoprendo una distanza tra la percezione di sé e la percezione di come gli altri ci vedono. 

La mobilità sociale è quindi un primo motivo di crisi dell’identità che, tuttavia, all’interno di una società che nel corso del Novecento ha vissuto un’evoluzione graduale, permetteva ancora la ricerca di stabilità. Ad acuire questa crisi è stata la successiva velocità delle trasformazioni e del progresso tecnologico di fine secolo, specie una volta iniziata la rivoluzione digitale. Oggi è difficile fare previsioni anche a breve termine su quali saranno le evoluzioni dei prossimi anni. Non è difficile rendersi conto di quanto le previsioni sul mercato del lavoro possano essere volubili e nessun mestiere possa essere più considerato in maniera monolitica. Allo stesso modo, in pochi vent’anni fa avrebbero potuto immaginare che lavori come il pilota di droni o l’analista di dati avrebbero vissuto un rapido sviluppo. Per non parlare di quelle realtà lavorative che è persino complicato identificare, che non hanno un preciso percorso formativo di preparazione e sono in costante evoluzione, come lo sviluppatore di app, il career coach o l’esperto di cyber security. Molti mestieri, poi, continuano a esistere, ma per conservare la loro posizione in futuro necessiteranno di una rapida evoluzione.

La trasformazione della società e l’ampliamento delle possibilità di confronto hanno poi dato modo di emergere, nei ragazzi, ad aspetti dell’identità che prima, nel sentire comune, erano dati per scontati, come l’identità sessuale o, ancor di più, l’identità di genere. La permanenza di resistenze anacronistiche e di pregiudizi su queste tematiche generano un costante conflitto interiore in chi non riesce ad esternare le proprie peculiarità individuali. La distanza tra la propria identità e la percezione della sua accettazione dà vita continuamente a conflitti difficili da affrontare. Per esempio, quelli legati all’ossessiva attenzione dedicata all’esteriorità, che nei ragazzi porta a un’insoddisfazione costante per via della distanza tra ciò che percepiscono di essere e ciò che la società vuole che siano.

È sempre Oliverio Ferraris a evidenziare come gli esiti della crescente conflittualità interiore dei ragazzi siano preoccupanti. Uno di questi è, per esempio, la creazione di identità simulate e di “falsi sé”, finalizzate all’evasione da una realtà insopportabile o con cui non si è in grado di relazionarsi. Spicca, su tutto, la correlazione tra la necessità di fuga e la possibilità di trovare una dimensione in cui ci si sente a proprio agio all’interno del mondo digitale. Emblematico è il fenomeno dell’hikikomori: il totale ritiro dalla vita sociale per spostare il proprio mondo all’interno di una camera da letto e della realtà virtuale.

Il mondo di oggi pone l’individuo di fronte al problema costante dell’individuazione della propria identità e in particolare i più giovani soffrono per questa costante pressione. Il mondo è in continua e rapida trasformazione, lascia loro pochi punti di riferimento e un’enormità di sfide. Per le nuove generazioni, in particolare, progettare il proprio futuro oggi è un compito arduo a causa di tutte le variabili che questa società impone. Per questo, se la crescita individuale viene intesa come in passato, ovvero come una scelta di direzione volta al raggiungimento di una stabilità individuale assoluta, non può che rappresentare un ulteriore motivo di conflitto.

Inutile continuare a premere sui ragazzi perché si impegnino al raggiungimento di una stabilità lavorativa – ancora simbolo di successo sociale – che rappresenta qualcosa di anacronistico. Bisognerebbe invece dare loro gli strumenti per essere più consapevoli della necessità di farsi trovare pronti e adattarsi ai cambi di direzione, sfruttando le proprie competenze per evolversi costantemente, e possibilmente farlo insieme, e non in maniera individualista. Questo cambiamento di prospettiva potrebbe partire dalle scuole, attraverso una vera e propria trasformazione del concetto di orientamento al futuro, che si basi non tanto sulla scelta di un mestiere quanto nella comprensione e nello sviluppo delle proprie attitudini. Allo stesso tempo, è importante allentare quella stretta connessione che ancora si percepisce tra identità lavorativa e identità sociale, evitando soprattutto di fare pressioni sui ragazzi che spesso non riescono a sopportare, caricandoli di aspettative che rischiano di trasformarsi in futuri sensi di colpa e frustrazioni. È fondamentale recuperare una visione dell’essere umano inteso come entità complessa che non può essere ridotta a un tassello all’interno della società, legata esclusivamente alla propria professione come motivo di realizzazione. Altrimenti, si rischia di amplificare ancor di più quel conflitto individuale che molti vivono fin da piccoli e che impedisce loro di trovare la possibilità di costruire se stessi.

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