Fatichiamo da anni per uscire dalla crisi e la crescita economica è un mantra di cui sentiamo parlare tutti i giorni: aumento del Pil e debito pubblico sono i due estremi tra cui oscilla il pendolo della nostra quotidianità. La crescita economica è l’unico obiettivo del nostro lavoro, sia come individui che come società. Così perdiamo di vista quelle che dovrebbero essere le priorità dello Stato: il benessere dei suoi cittadini e, specialmente in questo momento storico, la difesa dell’ambiente. Due elementi che non sono affatto in contraddizione tra loro.
Teorie che fino a poco tempo fa erano considerate poco più di opinioni bizzarre e fuori dalla realtà – simili alle formulazioni del francese Serge Latouche, teorico della decrescita felice – oggi trovano seguito anche presso nomi autorevoli dell’economia. Per Latouche – che ritiene quella del consumismo una guerra dell’uno contro l’altro, perché distrugge il Pianeta nella propria corsa all’accumulo – una “decrescita” regolata garantirebbe a tutti una dignitosa qualità della vita. L’economista-filosofo sostiene da anni che il Pil non abbia senso: “È funzionale solo alla logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione. Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio”. Che il Pil come misura del reale benessere di un Paese abbia dei grossi limiti è noto, dato che considera gli eventi dannosi come positivi (per esempio, un terremoto perché la ricostruzione attiva l’economia), mentre non tiene conto di tempo libero, equa distribuzione dei beni e costi dell’inquinamento, né del mercato nero, omissione che lo rende un metro inefficace soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove autoproduzione e baratto hanno ancora un peso rilevante.
Nel 2016 Christine Lagarde, allora a capo del Fondo Monetario Internazionale, l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz e il docente del Mit Erik Brynjolfsson, a Davos, affermarono che “Il Pil è un modo inefficiente di misurare la salute delle nostre economie, abbiamo bisogno di trovare urgentemente un nuovo criterio di misurazione”. Non solo il Pil non tiene conto di molti fattori non più trascurabili, ma il benessere non può misurarsi solo in termini di ricchezza economica. Lo dimostrò, per esempio, la pubblicazione nel 2016 dell’indice di prosperità dell’Africa, elaborato dal Legatum Institute, che evidenziò il fallimento di decenni di crescita economica nel tentativo di migliorare lo standard di vita di milioni di cittadini: emerse che diversi Paesi del continente avevano più successo di altri nel creare prosperità e reale benessere, ma non in modo proporzionale alla loro ricchezza economica.
Negli anni sono state proposte misure alternative per stabilire – e inseguire – il livello ottimale di qualità della vita: un esempio è stato il Genuine Progress Indicator, proposto nel 2014. Rispetto al Pil, questo indicatore tiene conto di fattori come la distribuzione della ricchezza, il valore della casa e le attività di volontariato e sottrae fattori negativi come i costi legati a criminalità e inquinamento. Altrove si sceglie di decidere le iniziative dello Stato sulle basi non più della crescita economica, ma del benessere dei cittadini. Sta provando a farlo la Nuova Zelanda che, adottando il wellbeing budget, si annuncia come il primo Paese al mondo a misurare il proprio successo sul benessere della popolazione. Il ministro delle finanze laburista Grant Robertson ha sottolineato che molti cittadini non stanno beneficiando della solida economia del Paese, che, secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale riportate dal Guardian, crescerà ancora del 2,9% nel 2020. Quello che la percentuale non dice è che in Nuova Zelanda il numero dei proprietari di case sarebbe il più basso in 60 anni, i tassi di suicidi in aumento e i senzatetto e sussidi alimentari in crescita.
Ovviamente una certa stabilità economica è indispensabile al benessere, come sostiene lo stesso ministro neozelandese Robertson: “Un’economia forte è importante, ma non dobbiamo perdere di vista perché è importante. E lo è per permettere a tutti di vivere vite migliori”. Quel che non serve, invece, è la ricchezza che eccede il soddisfacimento delle necessità: secondo alcuni studi determinerebbe persino più stress e una minore felicità rispetto alle classi medie e più danni per l’ambiente, innescando un pericoloso circolo vizioso. Questi risultati sono emersi già anni fa, quando l’ente statistico britannico ha cercato di misurare il benessere dei propri cittadini: il sondaggio vide, tra le risposte più presenti, “le presenti e future condizioni ambientali”. Su almeno due diversi piani il nostro benessere è infatti garantito dall’ambiente. Da un lato il contatto con la natura contribuisce al benessere psico-fisico, come dimostrato da diversi studi, e dall’altro comporta il nostro benessere materiale, dato che la natura garantisce cibo, clima stabile, fonti di energia, aria e acqua.
Tra le altre risposte al sondaggio britannico compariva anche la sicurezza economica, appunto. Ma tendiamo a dimenticare che la stessa oggi dipende dal passaggio a modelli economici più sostenibili e che la tensione tra benessere umano e ambiente – causata dal fatto che la soddisfazione di bisogni e desideri ha un impatto sugli ecosistemi – deve essere risolta il più in fretta possibile. È impossibile farlo se si continua a considerare il benessere, come per troppo tempo hanno fatto governi, media ed economisti, la quantità di beni e servizi che consumiamo. Conciliare noi e l’ambiente è possibile, ma dobbiamo interiorizzare nella nostra società e sistema economico la delicata relazione di dipendenza tra ambiente e benessere umano, per riconoscere la necessità di una maggiore sostenibilità ambientale.
Intanto, l’opposizione conservatrice in Nuova Zelanda prende di mira il wellbeing budget, parlando di “nonsense” per quanto riguarda i criteri scelti nella misurazione del benessere. Ma il governo sa che non bastano buoni rapporti tra vicini e una rete di amicizie (due dei criteri considerati) a garantire benessere e serenità. Non a caso il regno del Bhutan, esaltato come il campione della felicità dal Gross National Happiness Index – che misura benessere psicologico, standard di vita, vitalità della comunità e resilienza culturale e ambientale – a causa di disoccupazione e scarso grado di sviluppo si posiziona 96 posti alle spalle della Finlandia, tra i Paesi più felici al mondo secondo il World Happiness Report. Per questo tra le prime iniziative annunciate dal governo della prima ministra neozelandese Jacinda Ardern nell’ambito del people’s budget ci sono un aumento di 3,2 miliardi di dollari nei fondi per la spesa sanitaria, l’impegno a costruire 1600 ulteriori alloggi popolari all’anno, visite mediche meno costose per 500mila persone e gratuite sotto i 14 anni, un fondo di 450 milioni di dollari per le nuove scuole, 590 milioni di dollari, spalmati su quattro anni, dedicati all’educazione della prima infanzia, 284 milioni di dollari agli studenti con bisogni speciali e 394 milioni ai fondi per nuove strutture e insegnanti.
Una quota significativa è destinata al ministero della Conservazione, il nostro ministero dell’Ambiente, con un focus sul climate change. Non è un caso: il benessere dei cittadini non può prescindere dalla loro salute, garantita anche da un ambiente non inquinato. Per arrivare a questo risultato, secondo 11mila scienziati firmatari di un documento su BioScience, bisogna passare a un’economia carbon-free che ci ricordi che siamo dipendenti dalla biosfera e attuare politiche economiche coerenti. “I nostri obiettivi devono passare dalla crescita del Pil alla ricerca del benessere, anche economico, attraverso il sostegno all’ecosistema, […] dando la priorità ai bisogni primari e riducendo le diseguaglianze”, sostengono gli scienziati, per i quali è uno dei passi necessari a risolvere l’emergenza climatica, insieme ad altri interventi come gestione dell’aumento demografico, cambiamento dello stile alimentare, difesa della biodiversità, riduzione delle emissioni, aumento dell’efficienza energetica e abbandono dei combustibili fossili. “Crediamo – scrivono – che le prospettive siano migliori se i decisori politici e tutta l’umanità rispondono agli avvertimenti, dichiarano l’emergenza climatica e agiscono per sostenere la vita sul pianeta Terra, la nostra unica casa”.
Per vedere i risultati dell’adozione del wellbeing budget dovremo aspettare, ma le iniziative potrebbero non essere abbastanza rivoluzionarie. Quello di cui abbiamo bisogno è una svolta totale nel sistema economico, un radicale cambio di modello. Secondo Tim Jackson, economista e autore di Prosperità senza crescita, l’economia convenzionale basata sulla crescita infinita ha fallito: in un mondo dalle risorse limitate serve un nuovo modello basato sul benessere condiviso e in equilibrio con le risorse del Pianeta. Oltre alle diseguaglianze sociali, il modello economico nel quale viviamo crea anche problemi ambientali, sottolinea l’economista britannico: un motivo in più per superarlo in favore di un modello più rispettoso dell’uomo e della natura: “Gli ecologi ci dicono che non possiamo espanderci oltre al nostro Pianeta, mentre gli economisti rispondono che la tecnologia potrà rendere efficienti tutti i processi, impiegando meno risorse […]. Ma quanto è realistica questa idea? Quanto velocemente dobbiamo sviluppare le nuove tecnologie perché questo trucco magico funzioni?”.