Morto di Cpr. È questo il modo in cui LasciateciEntrare, realtà che riunisce attivisti per i diritti umani, operatori umanitari e cittadini volontari, registra i decessi avvenuti nei Centri italiani di permanenza per il rimpatrio.
L’ultima morte di Cpr risale al 18 gennaio scorso, nella struttura di Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia. Il cittadino georgiano 38enne Vakhtang Enukidze sarebbe rimasto coinvolto in una rissa con altri ospiti. In seguito è stato portato prima in ospedale, poi in carcere e infine di nuovo nel Cpr, dove le sue condizioni si sono aggravate. Riportato in ospedale, è morto, almeno secondo la versione ufficiale della struttura diffusa dai media. Con il passare delle ore sono però emersi una serie di dettagli e testimonianze che fanno all’ennesima morte di stato.
“Vakhtang non trova il telefono, non vuole tornare in cella, resiste, viene picchiato finché non ne può più. Viene buttato in cella, nella rabbia prende un ferro in mano e si fa male allo stomaco. Dopo viene portato in infermeria, non più di una ventina di minuti, torna e si mette a dormire, forse per i farmaci. Raccontano che il suo corpo era rosso dai lividi”, è la testimonianza raccolta dal gruppo No Cpr e no frontiere – FVG. “Sta presumibilmente due giorni nel Cpr, sta male, per le manganellate e per il colpo nello stomaco, chiede aiuto senza essere soccorso. […] La polizia entra e in otto accerchiano Vakhtang, iniziano a picchiarlo a sangue, si buttano su di lui con forza finché non sbatte la testa contro il muro. Lo bloccano con i piedi, sul collo e sulla schiena, lo ammanettano e lo portano via. ‘Lo stavano tirando con le manette come un cane, non puoi neanche capire, questo davanti a noi tutti’, ci ha spiegato un altro suo compagno recluso”.
Questo racconto si somma ad altri simili raccolti negli ultimi giorni, come quello del deputato di +Europa Riccardo Magi, tra i pochi riusciti a entrare nel centro. “Picchiato ripetutamente da circa 10 agenti, anche con un colpo d’avambraccio dietro la nuca e una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d’agonia. Si rischia un nuovo caso Cucchi”, ha denunciato. La rete LascieteciEntrare, parlando con detenuti e con personale legale, ha inoltre raccolto altri elementi utili: si parla di un arbitrario e del tutto immotivato sequestro dei telefonini dei cittadini stranieri ospiti della struttura, che ha impedito una comunicazione più veloce con l’esterno riguardo allo stato di salute del cittadino georgiano. A questo si aggiunge il rimpatrio forzato di tre cittadini egiziani, di cui uno con un trauma cranico proprio per l’episodio della rissa e che poteva dunque essere un testimone chiave. Sono tante le omissioni e carenze che rendono la fine di Vakhtang Enukidze sospetta.
Questa morte, al di là delle circostanze in cui è avvenuta, basterebbe in ogni caso a mettere in discussione il sistema di detenzione nei Cpr. I Centri di permanenza per il rimpatrio sono strutture dove vengono rinchiusi stranieri trovati in assenza del permesso di soggiorno. Si tratta dell’ultima evoluzione di un sistema nato nel 1998 con la legge Turco-Napolitano per favorire l’identificazione e il rimpatrio degli immigrati irregolari. In principio questi potevano essere trattenuti per un massimo di 30 giorni, ma la durata è arrivata ai sei mesi previsti dai decreti sicurezza di Salvini del 2018. I Cpr sono diventati dei sono veri e propri campi di internamento, dove le persone vengono imprigionate senza aver commesso alcun reato contro la persona o le cose. La loro unica colpa è condizione di irregolarità, che si traduce in una privazione della libertà personale che dura diversi mesi.
Come ha spiegato Annalisa Camilli su Internazionale, “nei 18 anni dalla creazione dei Cie (oggi Cpr), le critiche da parte dei difensori dei diritti umani e di organizzazioni indipendenti hanno mostrato che la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri irregolari è inefficace da tutti i punti di vista, tranne uno: quello della comunicazione politica”. Questi centri sono infatti strumenti di propaganda, prigioni dove si rinchiudono i migranti irregolari per nasconderli alla società e alimentare la narrativa dei rimpatri, che nella maggior parte dei casi non avvengono. Un rapporto del Senato sottolineava come già nel 2016 la metà delle persone transitate da questi centri e colpite da decreto di espulsione non fosse poi stata rimpatriata, per l’assenza di accordi con il Paese di origine o per i costi troppo alti da affrontare. Nel 2018, su 4092 persone trattenute ne sono state rimpatriate solo il 43%. Lo stesso Salvini che per mesi ha bombardato gli elettori con la promessa di rimpatriare 600mila migranti irregolari una volta al governo, ha dovuto poi raddrizzare il tiro quando è stato nominato ministro dell’Interno, sostenendo che “Di questo passo ci vorranno 80 anni”.
Il concetto detentivo dei Cpr italiani contraddice tanto la legislazione italiana quanto quella europea. Nel 2001 la Corte costituzionale ha stabilito che il trattenimento in un Cpr dovrebbe rispettare l’articolo 13 della Costituzione, che vieta la detenzione e la restrizione della libertà personale in assenza di un atto giudiziario, mentre nel 2011 la Corte di giustizia europea ha proibito la detenzione di un cittadino straniero per irregolarità. Eppure oggi nei Cpr la libertà personale è solo una di quelle violate in numerose occasioni. Come hanno sottolineato diversi report realizzati dalle associazioni per i diritti umani, nei Cpr spesso mancano spazi di socialità e per il consumo condiviso dei pasti, non sono previsti luoghi dedicati al culto, alla preghiera e ad attività di carattere religioso. Gli ospiti non sono assistiti in termini psicologici e sanitari e sono frequenti gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio, diretta conseguenza del vivere in un campo di prigionia senza aver commesso dei reali reati. A metà gennaio il settimanale Panorama ha svelato le carte di un’inchiesta della Procura di Potenza a proposito di maltrattamenti avvenuti nel Cpr del capoluogo lucano, in particolare di migranti sedati con medicinali in attesa dell’espulsione. Un dossier realizzato da Cild, Indie Watch e Asgi nel 2018 ha invece denunciato come nello stesso Cpr e in altri si siano registrate gravi violazioni del diritto alla difesa, che hanno impedito agli interessati di essere assistiti dal proprio legale in occasione delle udienze di convalida.
Quindi non stupisce che di Cpr si possa morire. La storia di Vakhtang Enukidze è solo l’ultima di una lunga serie. Già nel 2014 nella stessa struttura era morto dopo otto mesi di coma Majid El Kodra, un migrante marocchino che in un tentativo di fuga durante dei disordini interni si era procurato un trauma cranico. Per quell’episodio il centro di Gradisca d’Isonzo è stato chiuso, per poi essere riaperto nel dicembre 2019. A giugno 2019 nel Cpr di Brindisi si è tolto la vita Harry, un ventenne di origine nigeriana per cui le associazioni dei diritti umani avevano più volte denunciato il pericolo dovuto all’incompatibilità tra il suo stato di salute mentale e le modalità di detenzione a cui era sottoposto. Un mese dopo, l’8 luglio 2019, nel Cpr di Torino è deceduto un uomo 32enne di origine bengalese. Si è parlato del fatto che avesse subìto violenze sessuali da parte di altri detenuti, ma anche di una morte dovuta a cause naturali. Diverse fonti hanno però sottolineato che si trovava in isolamento e non aveva ricevuto cure mediche adeguate. All’inizio del 2020 nel Cpr di Caltanissetta è morto Aymen, tunisino di 34 anni, per cause naturali aggravate dall’assenza di un adeguato trattamento sanitario, come riportato da diverse associazioni.
È una storia di decessi, violazioni dei diritti umani e tensione interna quella dei Cpr italiani. Eppure si tratta di un modello che i ministri degli Interni che si susseguono continuano a voler mantenere, qualunque sia il loro colore politico. Prima Marco Minniti, con la volontà di aprirne uno in ogni regione italiana. Poi Matteo Salvini, che ne ha prolungato il periodo massimo di detenzione e, cancellando la protezione umanitaria, ha ampliato il numero di irregolari a rischio detenzione. Infine Luciana Lamorgese, che fino a oggi ha messo in discussione solo a parole i decreti sicurezza del leader leghista e che ha concesso l’autorizzazione per l’apertura di nuovi Cpr. Uno ha già aperto il 20 gennaio a Macomer, in provincia di Nuoro, il nono in Italia. Un altro si prepara a entrare in funzione nella milanese via Corelli. Strutture costruite con denaro pubblico, ma affidate in gestione a privati con apposite gare di appalto che ricordano da vicino il deleterio sistema statunitense, dove il carcere diventa un business fondato sull’equazione più detenuti uguale più guadagni.
La morte di Vakhtang Enukidze deve spingerci a una riflessione. Non solo su una vicenda che ha sempre più i contorni di un’altra vittima della violenza di stato. Dobbiamo interrogarci soprattutto sulla natura dei centri in cui questi fatti avvengono, veri e propri buchi neri della democrazia dove si vuole nascondere gli indesiderati per raccontare all’elettorato che si sta facendo qualcosa – i rimpatri che nella realtà non avvengono nella maggior parte dei casi – quando invece non si fa altro che privare delle persone spesso incensurate della loro libertà, con la sola origine come loro colpa.
Politici, associazioni per i diritti umani e operatori legali da tempo denunciano la disumanità di questi spazi, ma la discontinuità sul tema millantata dal governo giallorosso, per ora, consiste solo nell’inaugurarne di nuovi.