Gli 8 milioni e mezzo di italiani che vivono da soli affrontano un costo della vita più alto in media del 90% rispetto a quello pro capite di una famiglia di tre persone: quasi il doppio. La spesa alimentare mensile – bevande comprese – che si sobbarcano i single è di poco inferiore ai 300 euro, contro i 189 a testa per una famiglia, cioè il 58% in più; a cui si aggiungono anche le spese della casa, dato che gli appartamenti più piccoli hanno prezzi, sia di acquisto che di affitto, più alti al metro quadro, e le utenze, perché, che si sia soli o in due, l’uso dei fornelli è lo stesso, mentre, se si è single ma si vive con dei coinquilini, è più probabile che ciascuno si cucini da sé, con relativo dispendio di gas moltiplicato per il numero di abitanti della casa. In un contesto come questo, convivere con il partner finisce per essere dettato dalla necessità, smettendo di essere una scelta spontanea: essere in coppia non dovrebbe obbligare ad andare a convivere se non si vuole o se non ci si sente ancora pronti a farlo; avere dei coinquilini – che può essere divertente e umanamente arricchente quando si è studenti fuorisede – invece, dopo i trent’anni finisce per essere una scelta (spesso obbligata) di risparmio per tanti, perché la completa autonomia economica purtroppo è ancora lontana.
Sul piano finanziario, essere single non è solo una condizione impegnativa da sostenere, ma rappresenta anche un rischio: chi può contare solo sul proprio stipendio, per esempio, se perde il lavoro non ha la sicurezza di una seconda entrata per tenersi a galla mentre ne cerca un altro. Si potrebbe obiettare che un single non ha le spese dell’eventuale mantenimento di un figlio – oltre 175mila euro dalla nascita ai 18 anni – né quelle di un eventuale divorzio, ma sarebbero obiezioni obsolete quanto il concetto di “famiglia tradizionale”, dato che essere single non significa per forza non avere alle spalle un divorzio, né tanto meno non poter avere figli, e infatti oggi in Italia il 12% dei nuclei familiari sono monoparentali, e viceversa sposarsi non implica avere per forza dei figli. Ora che non esiste – almeno in Italia – l’obbligo sociale del matrimonio, dovremmo avere il diritto di scegliere se e quando andare a convivere; e invece, soprattutto per i giovani, spesso abitare con il partner è ancora l’unico modo per uscire dalla casa dei genitori, con buona pace di chi sostiene che avere ciascuno il proprio appartamento sia il segreto della solidità e della durata della coppia. Ecco perché se i giovani italiani escono dalla casa dei genitori a 30 anni – contro la media europea di 26 – usare termini come “bamboccioni”, “pigri” e “scansafatiche” quando si parla di loro non è solo antipatico, ma anche intellettualmente disonesto. Il problema economico, poi, vale in primo luogo per le donne: sono loro, specialmente se giovani, ad avere lo stipendio più basso (in Italia di circa il 15% in meno dei colleghi), oltre a fare i conti con le pressioni sociali che premono per incasellarle o nel ruolo di mogli e madri devote e appagate, o in quello, altrettanto stereotipato, di single in carriera, interamente consacrate al lavoro, oppure anche a entrambi contemporaneamente, senza attivare alcuna politica di reale sostegno.
Se le difficoltà finanziarie della vita da single non sono una novità – in fin dei conti il matrimonio è nato (e in molte parti del mondo è ancora) come un contratto economico dagli scopi pratici, la cui componente romantica è un’invenzione molto recente – negli ultimi anni il costo della vita sta diventando sempre più insostenibile per chi vive solo, e che rappresenta una parte di una quota in crescita – di quasi il 5% negli ultimi cinque anni. Vivere da soli è un privilegio che in pochi possono permettersi, non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, dove – come rileva Vox – i single dovrebbero, in teoria, incarnare i valori americani di autosufficienza e indipendenza, mentre il vero tassello base della società resta comunque la famiglia. In Regno Unito, poi, non va meglio: il costo della vita per chi vive da solo è infatti in media di 1.850 sterline, mentre le coppie spendono 990 sterline a testa tra affitto, bollette, spesa alimentare e abbonamenti vari. All’anno fanno 10mila sterline di differenza, circa 11mila euro, una cifra che può fare la differenza tra stare bene e non poter affrontare gli imprevisti. Anche se non si hanno problemi economici, comunque, si tratta di un’ingiustizia: lo evidenzia in particolare la psicologa sociale Bella DePaulo, secondo cui la nostra società discrimina chi non ha un partner; una delle differenze di trattamento è riscontrata, tra gli altri, dal sociologo americano Eric Klinenberg, che nelle sue indagini sui lavoratori dipendenti ha rilevato che i datori di lavoro spesso danno per scontato che i single possano trattenersi di più in ufficio perché non hanno un partner e dei figli di cui occuparsi, come se l’equilibrio tra vita privata e lavoro per loro fosse meno importante, con il risultato di ridurre il proprio tempo libero. Questa distinzione vale soprattutto per le lavoratrici donne ed è l’altra faccia della medaglia del demansionamento che ancora troppo spesso subiscono dopo la maternità.
Ufficialmente, in diversi Paesi soprattutto in Occidente, la discriminazione sulla base delle caratteristiche sociali è vietata, ma nei fatti è ancora così radicata che la mettiamo in atto, o la subiamo, senza nemmeno rendercene conto. Secondo DePaulo e il team che l’ha affiancata durante le sue ricerche sarebbe pervasiva. Non si tratterebbe, cioè, di sentirsi “sfigati” a San Valentino, ma di subire una discriminazione che ha risvolti anche molto pratici. Secondo i risultati di uno studio statunitense pubblicato nel 2006, confermati da una ricerca dell’Università di Haifa, in Israele, del 2015, inoltre, sarebbe più frequente associare alle persone sposate caratteristiche positive come maturità, gioia, gentilezza e onestà, mentre i single sarebbero più facilmente percepiti come immaturi, insicuri, egocentrici, infelici e poco attraenti.
Nonostante il fatto che quello fondato sulla cosiddetta famiglia tradizionale e sul matrimonio sia un modello per certi aspetti ormai anacronistico, in molti casi si tratta dell’unico modo per sopravvivere dignitosamente. Eppure, nemmeno le famiglie con figli se la passano bene, con asili nido o assenti o dai costi esorbitanti; orari lavorativi inconciliabili con quelli scolastici, che impongono di avere un aiuto nella gestione dei figli e, allo stesso tempo, stipendi troppo bassi, che rendono molto difficile far fronte alle spese aggiuntive che si rendono necessarie. Ecco perché molte donne sono costrette a decidere di lasciare il lavoro per occuparsi di tutto il resto, cosa che comporta da un lato la rinuncia forzata alla propria affermazione professionale e, dall’altra, che la famiglia dovrà vivere con un solo stipendio, con tutte le difficoltà che questo comporta oggi: un cane che si morde la coda. Le famiglie non hanno dallo Stato aiuti concreti e quando i politici si esprimono sul tema spesso il risultato assume la forma di proposte grottesche, come quella della Lega che voleva dare un bonus economico alle coppie under 35 che si sposavano in chiesa.
Se l’ammontare delle spese nascoste che i single si sobbarcano non ci scandalizza forse è perché la vita da single è ancora, in un certo senso, percepita come una fase transitoria, un accidente dell’esistenza che ci si augura lasci presto spazio a un lieto fine romantico. Ma siccome i dati dicono chiaramente che le persone sole costituiscono una quota sempre più rilevante della popolazione, se lo Stato non le sostiene non può pensare di crescere. Anche perché, prima di essere – eventualmente, se lo vorranno – la metà di una coppia, siamo tutti persone sole, singoli individui, e in quanto tali andremmo considerati, accolti e sostenuti nel nostro percorso di vita a partire dalle necessità di base come la casa, per esempio attraverso regolamentazioni degli affitti, che sono fuori controllo, e adeguando gli stipendi al costo della vita. Togliere questi ostacoli, oggi insostenibili con un solo stipendio, ci aiuterebbe ad affermarci come persone. D’altro canto, promuovere reti sociali di cui ciascuno di noi possa sentirsi parte, e tornare a valorizzare amicizia e socialità, anche per contrastare la solitudine, sarebbe fondamentale.
Invece, l’immaginario collettivo rimane quello della coppia come obiettivo di vita, mezzo di realizzazione personale, soddisfazione più alta a cui tendere. Altri approcci al privato sono scarsamente rappresentati, non compresi né previsti: non solo i single, ma anche il poliamore non trova spazio; eppure la società è fatta anche di questo, come è fatta di alternative che provano a rispondere alla solitudine sociale e al caro prezzi con comunità ed ecovillaggi; ed è fatta di – tanti – single che hanno il diritto di realizzarsi, anche vivendo da soli in un appartamento, se è quello che vogliono, o che semplicemente capita. In ogni caso, la coppia deve essere una scelta e non uno standard imposto: la politica dovrebbe prendere atto dei cambiamenti della società, non opporvisi e non perpetrare una discriminazione sulla base della presunta utilità sociale delle famiglie, che echeggia quella dei secoli scorsi. Non a caso, come riporta il Guardian, nella Gran Bretagna del Diciottesimo secolo si arrivò a sostenere che fosse opportuno imporre una tassa a scapoli e zitelle perché, non sposandosi, non contribuivano alla produttività della nazione. Oggi le cose sono cambiate, eppure quella tassa, anche se inconsapevolmente, i single continuano a pagarla.