Il corpo delle donne è sotto attacco. Non lo è da ieri e con ogni probabilità non smetterà di esserlo domani. In questo contesto è necessario difendersi. Con la forza, fisica o morale, con la giustizia.
Tuttavia, anche la più nobile delle battaglie corre il rischio di perdere di valore, se chi la combatte non sa utilizzare i propri strumenti nel modo corretto. Quando poi le istanze del singolo diventano impresa collettiva, è ancor più importante distaccarsi da qualsivoglia strumentalizzazione. Diventa necessario mantenere la lucidità di pensiero e azione, per scongiurare il rischio di trasformarsi da movimento a orda.
Le battaglie delle donne quindi, come tutte le altre, avrebbero bisogno di persone che sappiano combatterle, ma pare che non ce ne siano. L’arma, ormai innocua, è sempre la stessa: una stancante retorica che si ripete negli slogan e nei contenuti. Questi, per quanto necessari, condivisibili e fondamentali di fronte agli attacchi del bigotto che avanza, spesso non sono in grado di smarcarsi da un pensiero comune di scarsa qualità e altrettanta originalità, che si limita a fare da contraltare alle barbarie senza mai proporre una narrazione alternativa.
Proprio questo genere di dibattito si è scatenato negli ultimi giorni in risposta alla sentenza depositata il 17 luglio presso la Terza sezione penale della Corte di Cassazione. La vicenda in questione è un caso di stupro: due uomini cinquantenni hanno violentato una donna approfittando del suo stato di ubriachezza. In primo grado, nel 2011, il Gip di Brescia non aveva ritenuto attendibile la donna e ciò aveva portato all’assoluzione dei due uomini. La sentenza è stata poi ribaltata dalla Corte d’appello di Torino che nel 2017 aveva valutato diversamente il referto del pronto soccorso, rilevando l’avvenuto tentativo di difesa da parte della donna. Nonostante questo, il giudice di appello aveva escluso che il reato si fosse consumato mediante violenza, ritenendo invece che fosse stato realizzato abusando delle condizioni di inferiorità fisica derivanti dallo stato di ubriachezza della vittima e con l’aggravante dell’uso di sostanze alcoliche. A questo punto i difensori degli imputati si sono rivolti alla Cassazione che ha escluso la circostanza aggravante, pur confermando la condanna per violenza sessuale mediante abuso delle predette condizioni della vittima.
Visto che si parla di un reato, credo sia fondamentale riportare l’articolo del codice penale che lo inquadra, perché è buona pratica ricordare che gli illeciti hanno contorni ben precisi, che non sono ridisegnati a seconda del piacere e della sensibilità del singolo. L’art. 609-bis del Codice penale recita: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.” La stessa pena è prevista per chi compie tale reato “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa” o traendola in inganno sostituendosi a qualcun altro.
Nella sentenza, i giudici della terza sezione penale scrivono: “Integra il reato di violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica, la condotta di coloro che inducano la persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato dall’assunzione di bevande alcooliche, essendo l’aggressione all’altrui sfera sessuale connotata da modalità insidiose e subdole, anche se la parte offesa ha volontariamente assunto alcool e droghe, rilevando solo la sua condizione di inferiorità psichica o fisica seguente all’assunzione delle dette sostanze.” In termini non giuridici significa quindi che sì, si è trattato di violenza sessuale, e sì, i due uomini hanno abusato della situazione di confusione della vittima, ma no, tale circostanza non integra l’aggravante dell’aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche di cui all’art. 609 ter n. 2 c.p. in quanto la vittima ha volontariamente assunto alcool prima dell’accaduto.
In questo caso, la donna ha deciso di bere e ha bevuto. Senza costrizioni né induzioni ad assumere alcool. Nel suo stato di alterazione, i due uomini l’hanno costretta a un rapporto sessuale non consenziente. Viene riconosciuta la violenza sessuale, tra l’altro di gruppo e, quindi, più gravemente punita, ai sensi dell’art. 609 octies c.p.; viene riconosciuto l’abuso della condizione di minorata difesa dovuto allo stato di ebbrezza; non viene riconosciuta invece l’aggravante del fatto commesso con l’uso di sostanze alcoliche , in quanto non sono stati gli uomini a costringere la donna a bere. Questo non vuol dire che i giudici abbiano voluto sottintendere che la vittima “se l’è cercata”, e nemmeno la decisione ha giustificato sconti di pena, come si è tentato di far credere.
Far passare la notizia come quella di una sentenza che criminalizza la condotta delle donne, di un passo indietro nella lotta per i diritti, oltre a essere semplicistico, è il vero attacco alla battaglia civile per le libertà e contro le ingiustizie. Si perde l’occasione di imbastire una discussione seria e costruttiva sulle possibilità di riforma del nostro ordinamento e, soprattutto, si dà l’idea di non avere argomenti validi a fondamento delle proprie argomentazioni. È così che si aprono le voragini in cui, si insinuano le vere nefandezze che, subdolamente o esplicitamente, relegano la donna alla sua condizione di vittima senza giustizia.
Forse è solo una mia fissa, ma credo che le battaglie vadano combattute insieme. La necessità di dare risposte concrete alle fasce deboli della nostra società non deve farci dimenticare l’importanza di comprendere il contesto in cui cerchiamo tali risposte. Non ha senso interrogarci sull’utilità del carcere se poi invochiamo il pugno duro ogni qualvolta crediamo sia necessario, dimenticando il garantismo del nostro sistema giudiziario. In altri termini, non possiamo scadere in logiche manettare e nel populismo penale solo perché la vittima è una donna, o solo perché riteniamo che la sua tutela – e tutte le battaglie connesse alla sua figura – siano più rilevanti rispetto a un qualsiasi uomo, bianco, cinquantenne e, nel caso, anche stupratore.
Io sono per l’interrogarsi sul ruolo della punizione anche quando l’oggetto del reato è una donna. O un migrante, o un povero, o uno sfruttato. L’analisi politica e giuridica che facciamo guardando agli oppressi diventa sterile esercizio ideologico quando non siamo in grado di porci domande anche sulla posizione dell’oppressore. Ogni criminale è la manifestazione di una corresponsabilità personale, sociale e culturale. Sono questi due gli aspetti che noi possiamo, e dobbiamo, combattere con tutte le nostre forze. Anche il peggiore dei delinquenti rappresenta un campo di battaglia su cui altre lotte sono state perse o, peggio, nemmeno prese in considerazione nella corsa sensazionalistica alla ricerca di un nemico. C’è chi può essere recuperato e chi no, ma comunque su tutti è necessario riflettere prima di decidere che l’unica cosa da fare sia schiaffarlo nell’angolo di una cella.
La storia della donna che ha subito questa violenza schifosa è una triste vicenda personale, che è importante non strumentalizzare nel dibattito pubblico. Posso mettermi nei suoi panni, guardando al dito. Che è carne e sangue, che è vivo. Ma per guardare alla luna, che è in alto ed è lontana, di lei mi devo necessariamente svestire.