Com’era prevedibile, il COVID-19 ha raggiunto gli Stati Uniti – e se n’è accorto persino Trump. I numeri che riporta il sito Worldometer parlano di 1.336 infetti, 38 decessi e 15 guariti. Tra i primi pazienti statunitensi anche diversi passeggeri della Diamond Princess, la nave da crociera rimasta bloccata nel porto giapponese di Yokohama per settimane e diventata il simbolo dell’epidemia, oltre che un esperimento sociale inquietante. La stessa sorte toccherà alle 3.500 persone sulla Grand Princess, ora ormeggiata nel porto di Oakland, in California. 19 di loro, compresi membri dell’equipaggio, sono risultati positivi al COVID-19 e ora restano sulla nave in attesa di venir trasferiti in strutture militari per la quarantena.
Il fatto che non si sia trovato il paziente 0 e che molti dei contagiati si siano ammalati senza aver avuto un apparente contatto con i focolai conosciuti, fa pensare però che i casi negli States siano molti di più. Secondo un’indagine statistica realizzata applicando i parametri cinesi alla popolazione statunitense, realizzata dell’Ospedale no-profit Cedars-Sinai di Los Angeles, al primo di marzo erano già potenzialmente 9mila le persone che avevano contratto il virus nel Paese. Un dato più vicino alla verità non si può avere, poiché gli Stati Uniti stanno conducendo pochissimi test. La totale privatizzazione del sistema sanitario rende difficile persino capire quali sia la reale capacità di testing del Paese.
Secondo un calcolo realizzato dall’American Enterprise Institute sarebbe di 7.840 tamponi al giorno, ma si tratta di una stima. Il Centers for disease control and prevention, l’Agenzia federale che ha il compito di gestire l’emergenza a livello centrale, oggi attesta di aver somministrato 3.791 tamponi. A questi vanno aggiunti i test condotti a livello locale, i cui numeri però sono difficili da accertare perché non tutti gli Stati li rendono pubblici, ed è difficile tenere sotto controllo quello che avviene nelle cliniche private. Secondo il loro sito sono 7.288, un numero davvero molto basso. Per fare un paragone, in Corea del Sud (che ha elaborato un metodo quasi fordista per sottoporre i test, un po’ in stile McDrive) con più 10mila test al giorno già il 9 marzo aveva superato i 200mila. Nella stessa data, il Regno Unito ne aveva condotti più di 26mila. In Italia, i dati aggiornati all’11 marzo parlano di 73.154 tamponi. Il problema? Negli Stati Uniti vivono circa il doppio delle persone di questi tre Paesi messi insieme. Il secondo problema? Lì le procedure mediche costano moltissimo.
Nei giorni scorsi si è diffusa la storia di Osmel Martinez Azcue, un ragazzo della Florida che ha ricevuto una bolletta piuttosto salata per essersi presentato in ospedale nel timore di aver contratto il virus. Sebbene il tampone sia ufficialmente somministrato gratis dalla Cdc, Azcue ha comunque dovuto pagare i costi correlati alla gestione del suo caso: 157 dollari per due esami del sangue e 819 per il costo del pronto soccorso. Una cifra paragonabile a quello che un paziente medio italiano spende in un anno di cure. Il suo caso non è isolato: la testata CNBC ha calcolato che, per una degenza media di 10 giorni, il conto finale per chi si ammala di coronavirus può arrivare a 75mila dollari; anche solo farsi testare, senza dover essere ricoverato per giorni, per via dei costi correlati potrebbe richiedere tra i 500 e i mille dollari. Persino i cittadini statunitensi che provenivano da Wuhan, e che sono stati messi in quarantena obbligatoria dal governo in strutture militari, hanno ricevuto il conto una volta tornati a casa: quasi 4mila dollari per i costi di medici, radiologi e della compagnia che gestiva il servizio dell’ambulanza. Questo nonostante si trattasse di un trattamento sanitario imposto e somministrato direttamente dallo Stato.
Nel Paese si parla di bollette “a sorpresa”, che arrivano dopo qualche tempo e il cui costo è difficile prevedere, perché è dettato dalle dinamiche del mercato e dalle condizioni stipulate dal singolo con la propria compagnia assicurativa. Chi ha una copertura sanitaria insufficiente, circa 44 milioni di persone, si trova comunque a sborsare una parte rilevante del conto finale direttamente dalle proprie tasche. I 30 milioni di persone che l’assicurazione non ce l’hanno proprio, invece, possono vedersi accreditare l’intero prezzo del ricovero, anche in una situazione di emergenza come questa. Ad aggravare il problema è il fatto che, ovviamente, si tratta già di persone in difficoltà. La maggior parte dei non assicurati, infatti, si trova tra le famiglie a basso reddito; persone che appartengono principalmente alla comunità afroamericana, che non hanno una copertura sanitaria offerta dal datore di lavoro, con uno stipendio troppo basso per potersela permettere, oppure che vivono in quegli Stati che offrono un aiuto agli indigenti (non tutti lo fanno) ma che paradossalmente hanno uno mensile troppo alto per rientrare negli stringenti canoni richiesti dalle autorità per elargire il sussidio.
Secondo una ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), nel 2017 lo statunitense medio ha sborsato per le cure mediche tra i 4.500 e gli 8.300 dollari, solo di soldi presi direttamente dal proprio conto in banca. Il costo pesa così tanto sui singoli che sono diventate molto più frequenti le campagne di crowdfunding, indette dai cittadini per aiutarsi a vicenda ad affrontare le spese incorse per una malattia. Ci sono poi da considerare i fondi pubblici che finiscono nella Sanità, che comunque provengono dalle tasche dei cittadini e che per un Paese con il sistema sanitario del tutto privatizzato non sono affatto pochi, ma sono nettamente di più di quelli spesi dal resto dei Paesi dell’Oecd. Nel 2017 la spesa sanitaria procapite è costata a Washington più di 10mila dollari, principalmente finiti in costi amministrativi, forza lavoro e farmaci su prescrizione. 2mila in più rispetto al secondo in classifica, la Svizzera. L’International Federation of Health Plans ha stimato che nel 2013 un giorno di ricovero in un ospedale statunitense sia costato in media 4.293 dollari, contro i 1.308 dell’Australia e i 481 dollari della Spagna. In Italia, in questi giorni è stato calcolato che un paziente affetto da coronavirus costi al sistema sanitario 1.500 euro al giorno.
Tutto costa di più negli Stati Uniti: l’ente sopracitato ha confrontato il costo nel 2017 di una serie di farmaci e procedure mediche con 7 altri Paesi (Regno Unito, Svizzera, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Australia, Sud Africa ed Emirati Arabi Uniti), e il risultato dà i brividi. Una colonscopia negli States costa in media 2.870 euro, il 30% in più rispetto al Regno Unito (il secondo Paese in cui costa di più) e il 70% in più rispetto a Svizzera, Emirati e Sud Africa (quelli in cui costa di meno). In Italia con il Ssn costerebbe dai 36 euro (con impegnativa) ai 400 (privatamente). Le donne statunitensi pagano il parto in media 11mila dollari, mentre le sudafricane, quelle che pagano meno, devono sborsare meno di 2mila dollari; le inglesi 9mila. In Italia è gratuito negli ospedali pubblici. Lo stesso vale per le medicine. Il Trastuzumab, un farmaco che viene somministrato ai pazienti malati di cancro al seno e allo stomaco, costa agli statunitensi in media 211 dollari, contro i 133 del Regno Unito (sempre quello più caro) e i 24 dollari dei Paesi Bassi, il meno caro. Victoza e Xarelto, utilizzati per curare rispettivamente il diabete e le sindromi cardiovascolari, in Italia sono passati del tutto gratuitamente dal Sistema sanitario nazionale, perché salvavita; negli Stati Uniti costano rispettivamente 770 e 380 dollari.
Ora, è ovvio che i sistemi sanitari sono tutti diversi, e il paragone è e vuole essere strumentale a far comprendere il punto: quando si lascia che il mercato si autoregoli, per buona pace dei neoliberisti, questo non lo fa. Mi sembra che nel 2020 possiamo anche riconoscerlo e riconoscere che servono delle regole oltre alla fantomatica manina – non quella di Di Maio, ma quella di Adam Smith. Se si lascia che persino il diritto alla salute sia vincolato alla logica del profitto, il mercato non può che generare una delle più grandi ingiustizie del mondo democratico: il sistema sanitario statunitense. Un’ingiustizia che ora, in tempi di pandemia, potrebbe trasformarsi in una catastrofe. Il costo delle cure mediche spingerà e sta già spingendo molti statunitensi a non richiedere il tampone, a non recarsi in ospedale, a curarsi come può. Ad aumentare la loro consapevolezza sui rischi che corrono non aiuta di sicuro il Presidente Donald Trump, che per diverso tempo ha continuato a sostenere che si trattasse di una “comune influenza”, e che il Coronavirus non avrebbe fermato l’economia e il Paese, mentre ora lo ha rigirato a suo favore per propinare agli americani la sua idea di Stato chiuso al resto del mondo. Mostrando di ignorare il fatto che ormai sono passati mesi da quando l’epidemia è scoppiata in Cina, e che è piuttosto improbabile che non si trovi già in maniera diffusa sul suo territorio, ha chiuso i voli da e per l’Europa. Non ha però previsto misure che incentivino le persone a testarsi.
Non affrontare la malattia, come si è visto, non farà che aumentarne la diffusione, con tutti i pericoli che ne conseguono negli Stati Uniti e in tutti i Paesi che con essi hanno contatti, ovvero tutto il mondo. Non sarà certo il coronavirus a convincere gli statunitensi a nazionalizzare la sanità, ma forse, si spera, potrebbe accendere un lume nella mente di qualche conservatore, in vista delle elezioni presidenziali di novembre.