Con il propagarsi delle notizie inerenti al Novel Coronavirus (2019-nCoV), i cui primi casi sono stati registrati nella città cinese di Wuhan, per poi propagarsi rapidamente a scala globale, sono aumentati anche i casi di xenofobia nei confronti di persone di origine cinese. Come riporta la CNN, le testate giornalistiche del mondo hanno contribuito all’ascesa di questa intolleranza, come ha fatto il giornale francese Courrier Picard, che in prima pagina riporta il titolo “Alerte Jaune”, allerta gialla. Non si sono fatti attendere episodi di xenofobia anche in Australia, in cui su diversi social media sono circolati falsi annunci sull’importanza di evitare zone con un’alta presenza di persone di origine cinese; e dove l’Herald Sun, il principale quotidiano di Victoria, ha parlato di Coronavirus chiamandolo “Chinese Virus”, virus cinese, suscitando non poche polemiche, tanto da far nascere una petizione da parte della comunità cinese in Australia per ricevere delle scuse.
Con la conferma dei due turisti cinesi a Roma contagiati dal Coronavirus, che ora si trovano all’Ospedale Spallanzani, diffidenza e xenofobia nei confronti della comunità cinese sono cresciute esponenzialmente anche in Italia. Nonostante le istituzioni competenti abbiano più volte confermato che la situazione sia sotto controllo, con l’adozione di una linea di prevenzione dalla soglia molto alta, e che i due turisti si trovino in discrete condizioni, il bombardamento mediatico che ha preso forma tramite la pubblicazione di titoli o post chiamando in causa “I Cinesi onti” che “ci impestano”, come ha scritto Niclo Scomparin – consigliere comunale per Fratelli d’Italia, di Treviso – o di nuovo il “Virus Cinese”, aumentano l’ansia collettiva e la xenofobia.
Benché gli episodi di xenofobia nei confronti delle minoranze etniche purtroppo non siano qualcosa di nuovo per questo Paese, i recenti casi di sinofobia seguiti alla notizia del Coronavirus, sono stati riportati anche sul Guardian. Si pensi al caso del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, il cui direttore, Roberto Giuliani, con una circolare inviata ai docenti, ha deciso di sospendere le lezioni solo per gli studenti di origine cinese, giapponese e coreana finché non avessero superato una visita medica, una sorta di quarantena preventiva per evitare il contagio. Tale scelta però ha suscitato diverse reazioni negative da parte dei docenti perché non solo hanno visto tali disposizioni come discriminatorie ma anche in parte insensate in quanto questa visita sarebbe stata effettuata su ogni studente di origini asiatiche, indipendentemente dal fatto che si trattasse di persone che erano state recentemente in Cina o meno. Ci sono poi stati i casi di Venezia e Firenze in cui alcuni turisti cinesi sono stati aggrediti verbalmente. Nel primo caso una coppia di turisti di origine cinese è stata inseguita e insultata, ricevendo anche degli sputi. Nel secondo caso è diventato virale il video in cui un uomo insulta un’altra coppia di persone di origine cinese che passeggiano sull’Arno. Nel video si sentono le parole “Schifosi, sudici andate a tossire a casa vostra” e ancora “Ci infettate tutto, fate schifo, pezzi di merda”. E infine, si pensi al blitz razzista a opera del partito fascista Forza Nuova che a Como e a Brescia ha agito attaccando dei volantini con scritto “Coronavirus? Compra italiano” alle vetrine di negozi cinesi.
Tutto questo panico misto a xenofobia generalizzata ricade sulla comunità cinese già presente in Italia, che finisce per essere considerata come capro espiatorio su cui sfogare una paura irrazionale e dai confini poco definibili, dando per scontato che ogni persona di origine cinese che si incontra sia da poco tornata dalla Cina e che possa essere contagiosa. Tuttavia bisogna ricordare che la Cina è meta di lavoro e di viaggio anche per molte altre nazionalità, tra cui quella italiana: a rigor di logica, questo questo atteggiamento dovrebbe riversarsi su ogni persona di origine italiana che si incontra e che è potenzialmente stata in Cina da poco, eppure ciò non avviene perché, al contrario, l’associazione virus-persona di origine cinese è ormai automatica, al punto da arrivare a seguire un vero e proprio racial profiling basato sui tratti somatici.
Di questo paradosso si sono accorti in primis proprio i cittadini italiani di origine cinese, come Momoka Jinglin, studentessa universitaria in Media Studies a Roma. Jinglin, tramite i social media quali Instagram e Facebook, sta cercando di fare da argine alle bufale che stanno circolando sul legame tra Coronavirus e le persone di origine cinese presenti in Italia. In un’intervista si racconta dicendo che questo tipo di reazione è qualcosa di cui aveva fatto esperienza già nel 2003, quando era scoppiata la Sars, virus originatosi sempre in Cina – sindrome respiratoria acuta e particolarmente violenta, anche se molto meno contagiosa della Sars. Jinglin aveva nove anni e ancora si ricorda di come si sentisse a disagio in Italia e con la costante paura di spaventare le persone. Il ristorante dei suoi genitori ebbe una crisi di sei mesi, cosa che sta tornando ad accadere anche stavolta. Così la Chinatown di Milano in via Paolo Sarpi, zona di ristoranti, alimentari e negozi di abbigliamento all’ingrosso cinesi solitamente molto affollata, risulta deserta. Inoltre ha aggiunto che nonostante abbia sporadicamente ricevuto insulti di stampo razzista sui social, con il Coronavirus ne ha ricevuti un maggior numero, come “Schifosi cinesi, per colpa della vostra sporcizia andate in giro a infettare il mondo”.
E nonostante i tentativi di Jinglin di spiegare che l’essere di origine cinese non implica automaticamente avere il virus o essere stati in Cina durante il periodo di iniziale diffusione del contagio, secondo il sondaggio Noto riportato da Open, il 71% degli italiani evita ristoranti cinesi e di acquistare cibo cinese. Eppure Giada Zhang, italiana di origine cinese e amministratrice delegata dell’azienda a conduzione familiare Mulan Group – con sede in provincia di Cremona – spiega che i suoi prodotti, come quelli di altri ristoranti cinesi, vengono presi di mira senza ragione, dato che gli ingredienti utilizzati provengono da fornitori italiani. Inoltre bisogna ricordare che il virus non può essere trasmesso attraverso prodotti impacchettati e spediti: come ha sottolineato l’OMS non vi è alcun rischio nel ricevere pacchi dalla Cina, dato che il virus non sopravvive a lungo sugli oggetti quali appunto pacchi o lettere, se non trova in tempi brevi un organismo che lo ospiti.
Le testate giornalistiche nazionali dopo averci bombardati con titoli allarmisti e sensazionalistici, sono poi le stesse che si interrogano su questa psicosi collettiva. È il caso, ad esempio, di Open in cui prima è stato pubblicato il video dei due turisti cinesi – senza alcun diritto alla privacy – in ambulanza che sono stati poi trasportati all’ospedale Spallanzani, e poi il sondaggio sulla percezione che gli italiani hanno sulle persone di origine cinese in Italia. La psicosi non nasce per caso ma anche da questo modus operandi: è chiaro che quando si tratta di emergenze sanitarie di questo tipo, l’informazione sia importante, ma è altrettanto importante non trasformarla in sciacallaggio per il solo scopo di ottenere click cavalcando l’onda della paura. Anche perché i toni e le parole che vengono utilizzate nell’informazione hanno un peso e un impatto sulla società.
A questo proposito, l’Organizzazione mondiale della sanità ha già sottolineato nel 2015 come fosse importante dare la giusta definizione ad eventuali epidemie o virus cercando di evitare riferimenti alla nazionalità o all’etnia. Tali best practices indicate dall’Oms sono volte proprio a evitare che si crei quello che si sta presentando in questo periodo, ossia una stigmatizzazione di un intero gruppo etnico. In questo caso, il nome scientifico è Novel Coronavirus e chiamarlo “virus cinese”, benché il primo caso riportato sia stato trovato proprio in Cina ed è lì che si è diffusa per la maggior parte l’epidemia, non solo è riduttivo ma può contribuire all’aumento di episodi di intolleranza ingiustificata.
Inoltre l’Oms cerca anche di spronare le persone a informarsi sul proprio sito (who.int) o sui siti delle autorità nazionali, o sui profili social di medici e scienziati competenti che fanno divulgazione seria, cercando di contrastare le bufale che circolano sul web o sui social network (cosa che comunque anche Open sta cercando di fare). È il caso dell’audio Whatsapp che ha fatto il giro dei cellulari, partito da una sedicente infermiera del Policlinico Umberto I di Roma, in cui affermava che vi erano ventisette casi di Coronavirus registrati in Italia. La bufala è stata smentita con un comunicato ufficiale della Regione Lazio in cui è stato riportato che la Direzione Sanitaria del Policlinico Umberto I smentisce la presenza di questi ventisette casi e che sporgerà denuncia per individuare i responsabili dell’audio.
Le precauzioni indicate dalle istituzioni competenti vanno prese, così come è giusto essere informati in tempo reale su ciò che avviene. Questa diffusione responsabile delle informazioni ad esempio è fatta da Matteo Bassetti, professore ordinario di Malattie infettive al Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova. Bassetti ha infatti confermato che benché sia necessario vigilare attentamente sulla situazione, non bisogna creare allarmismi inutili, dato che il nuovo Coronavirus sembra essere meno aggressivo rispetto alle polmoniti che vengono solitamente curate in ospedale. Stando ai numeri attuali, dice Bassetti, il tasso di mortalità è basso, tra lo 0.3 e lo 0.4%.
Infine, i cittadini francesi di origine cinese hanno dato il via a una campagna social con l’hashtag “Je ne suis pas un virus”, non sono un virus. L’appello è nato su twitter da Lou Chengwang che è subito diventato virale in tutto il mondo. Forse si dovrebbe ripartire proprio da queste parole, perché non è possibile mascherare questi episodi di xenofobia e intolleranza sotto la giustificazione della paura per il contagio. Tuttavia c’è differenza tra fare giusta informazione e fare a gara tra chi scrive il titolo più catastrofico e sensazionalistico, senza tener presente che si sta parlando sempre di persone.