Era l’indomani del Bataclan, camminavo in Place de la République con un paio di amici quando abbiamo sentito alcune persone dire che “qualcuno li aveva visti provenire da giù, i terroristi”. È stato allora che ho visto la gente intorno a me iniziare ad accelerare il passo, e, in poche frazioni di secondo, cominciare a correre all’impazzata. Mi sono ritrovata a scappare col cuore in gola senza sapere nemmeno da chi scappavo o perché. Funziona così, la psicosi collettiva. Gli esercenti chiudevano le saracinesche dei negozi barricandovisi dentro, alcuni cercavano un posto sicuro sotto la metropolitana – praticamente come infilarsi in una gabbia per topi – altri piangevano.
Abbiamo iniziato a correre il più veloce possibile senza sapere dove stessimo andando, aspettandoci a ogni angolo di vedere spuntare un terrorista armato di mitra. In quei momenti l’istinto è quello di buttarsi a terra e nascondersi sotto una macchina, per non essere colpiti.
Quando si scatena il panico, le persone in una folla si comportano come animali. Questo meccanismo di paranoia collettiva viene chiamato “effetto gregge”: quando tutti corrono anche chi è fermo inizia a farlo seguendo i compagni più vicini, indipendentemente dalla direzione e dal perché – un perché che potrebbe anche non esserci. È una reazione umana atavica, inconscia, irrazionale, istinto di sopravvivenza. L’effetto gregge – anche detto “influenza sociale” – è la pressione che il gruppo esercita sui singoli, modificandone le percezioni e i comportamenti. Il pericolo può non essere reale ma anche solo avvertito: per essere preda del panico non è necessario identificarlo visivamente in qualcuno o qualcosa. Quanto successo a Parigi due giorni dopo il Bataclan è stata una pericolosa suggestione collettiva, fortunatamente senza conseguenze.
Qualcosa di simile ma dai risvolti drammatici è accaduto a Torino, in piazza San Carlo, il 3 giugno del 2017, durante la proiezione della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. Allora il panico generato da uno spray urticante aveva provocato un morto per schiacciamento e 1.527 feriti, tra cui una donna che passerà il resto della sua vita immobilizzata dal collo in giù. In quell’occasione lo spray al peperoncino era stato usato per rubare portafogli e cellulari, ma è ritenuto dagli inquirenti la causa della psicosi che ha travolto la folla di tifosi.
Una situazione simile si è verificata anche lo scorso venerdì nella discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo, durante la serata che avrebbe dovuto ospitare il trapper Sfera Ebbasta. Ancora una volta a generare il panico sarebbe stato uno spray al peperoncino, ma stavolta le conseguenze sono state ancora più devastanti: sono sei le persone rimaste uccise, tra cui cinque ragazzini. Oltre alla bomboletta, la sicurezza è mancata. A Corinaldo, come l’anno scorso a Torino, si è consumata una tragedia per centinaia di persone che speravano solamente di vivere un momento di festa e che ora chiedono verità e giustizia. Ma come si è arrivati a questo punto? Quali errori sono stati commessi?
Per quanto riguarda la sicurezza della Lanterna Azzurra, la prima considerazione è sulle uscite di sicurezza del locale. Quando si crea una situazione di panico in un posto chiuso, non è detto che le persone convergano verso tutte le uscite presenti, ma potrebbero utilizzarne soltanto una, come è accaduto infatti a Corinaldo. Tutte le persone sono state indirizzate verso un’unica porta, perché? Il personale di sicurezza dovrebbe essere formato su come far defluire la gente in situazioni di panico. La seconda considerazione riguarda la balaustra che ha ceduto: se la porta dell’uscita di sicurezza si apre su un parapetto che crolla sotto il peso della folla, semplicemente non è un’uscita di sicurezza. Avere una balaustra piena di ruggine è un potenziale delitto. Infine, uno dei testimoni sostiene che quella sera una porta non si sarebbe aperta, e non è difficile crederlo: capita spesso che nel corso di una serata le porte di sicurezza vengano sbarrate con divani o catene per non far entrare altra gente da fuori.
Relativamente alla sicurezza, si discute anche del presunto sovraffollamento del locale. Dalle prime ricostruzioni sembrava che fossero stati venduti 1.400 biglietti per una capienza di 459 posti, ma i biglietti staccati sarebbero in realtà 500. Posto che prima di sparare numeri sarebbe opportuno accertarli, c’è un tema su cui bisognerebbe riflettere. Rispettando la capienza consentita per legge (in Italia è di due persone per metro quadro), il locale sarebbe stato mezzo vuoto con conseguente scontento di pubblico e artista, mentre, si sa, oggi i locali vanno “riempiti a tappo”. Nessuno vuole un locale vuoto, né l’artista né il pubblico. Questo è un fatto.
Un ultimo problema legato alla sicurezza è quello relativo ai controlli all’ingresso delle discoteche. Le ispezioni di Corinaldo sono state evidentemente sommarie come quelle fatte in piazza a Torino. Come si può permettere l’ingresso nei locali di queste sostanze potenzialmente letali? È normale che non ci siano controlli selettivi all’ingresso? Analizzando la situazione, emerge però un cortocircuito: i buttafuori non hanno la facoltà di perquisire e le palette che utilizzano per trovare oggetti pericolosi non rilevano le bombolette spray, che sono di plastica e si possono nascondere facilmente.
Sarebbe stata proprio una bomboletta di spray urticante a scatenare il caos. Spruzzare questa sostanza provoca un senso di soffocamento misto a pizzicore e lacrimazione degli occhi. È pesantissima: si sente nel naso, negli occhi e nei polmoni. Manca il respiro ed è ovvio che chi si trova in un posto chiuso, avvertendo questi sintomi, cerchi una via di fuga. Come dovrebbe essere ovvio per chi lo usa che quel gesto irresponsabile potrebbe avere conseguenze estreme. Eppure non è la prima volta che viene spruzzato un simile spray durante un evento: è già successo per alcune serate dello stesso Sfera Ebbasta, ma anche di Ghali, Achille Lauro ed Elisa. Nella ricerca dei colpevoli in queste ore gran parte della stampa si sta concentrando su ipotetiche gang dello spray. Queste bande sarebbero attive in tutta Italia e agiscono da oltre un anno seminando il panico in discoteche e concerti dei trapper più seguiti. Sceglierebbero un obiettivo da una lista di eventi, si mischiano tra il pubblico rapinando catenine, portafogli e smartphone. E per coprire la fuga spruzzano spray con sostanze accecanti e stordenti. Nell’inchiesta sulla gang di Torino si contano 64 indagati per almeno 54 colpi, molti in discoteche in giro per l’Italia e all’estero. In un articolo de La Stampa a firma di Giuseppe Legato si legge che, per quanto riguarda Torino, “Per tutti è alle porte l’invio dell’avviso di chiusura indagini che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. L’inchiesta – coordinata dai pm Roberto Sparagna e Paolo Scafi – è sostanzialmente definita con tanto di confessioni degli autori”. Nel frattempo, la moda dello spray sta spopolando e sta già impazzando l’effetto emulazione dopo i tragici fatti di Corinaldo. Motivo in più per sostenere che questa sostanza non debba essere accessibile ai minori.
Senza dubbio il responsabile di gesti criminali è chi ha utilizzato lo spray, ma alla luce di quanto accaduto a Corinaldo, è urgente discutere sull’opportunità della diffusione di sostanze simili e la loro facile reperibilità, soprattutto per i minorenni. Liberalizzata nel 2011, la vendita dello spray al peperoncino oggi è consentita dai 16 anni in su e solo per autodifesa. Ma come si fa a dimostrarlo? Si compra online e si trova in farmacia, dal ferramenta, al supermercato, nei distributori. Mettere lo spray nei supermercati alla portata dei minori è irresponsabile, e sarebbe anche utile limitarne la pubblicità, come hanno fatto Google e Facebook. Si tratta di uno strumento che può tornare utile in alcuni casi, ma che ha evidentemente anche un uso criminale, che si sta diffondendo sempre di più.
Qui in Italia invece è stato addirittura sponsorizzato da un quotidiano nazionale, Libero, che nell’ottobre scorso ha cominciato a vendere bombolette per una quarantina d’euro in allegato alla copia del giornale: un’iniziativa pericolosa e passata sotto silenzio e senza alcun tipo di conseguenza. Non si può pubblicizzare un’arma del genere per gli evidenti pericoli che comporta: la pubblica sicurezza dovrebbe intervenire, così come pure la politica, invece lo spray è uno strumento che, fino a poco tempo fa, la Lega distribuiva in banchetti appositi. E se è vero che lo spray al peperoncino nasce per autodifesa – con l’idea di permettere alle donne di difendersi da aggressioni e stupri – è altrettanto vero che è diventato principalmente un’arma di offesa. Quella ideale del bullo e del delinquente, e sarebbe ora di vietarla almeno ai minorenni e smettere di pubblicizzarla. La moda idiota dello spray sta spopolando e, paradossalmente, dopo Corinaldo, uno dei rischi è l’emulazione.
Bisognerebbe quindi chiedersi se la retorica della legittima difesa abbia davvero portato i frutti sperati oppure se una liberalizzazione indiscriminata di questi prodotti non conduca a risultati opposti, perché questo genere di prodotti li compra chi è dedito alle aggressioni e non chi vuole difendersi. Quando la distribuzione di un’arma diventa un fatto normale e diffuso, più persone diventano automaticamente vulnerabili e soggette a potenziali aggressioni. Paradossalmente, uno spray diffuso per portare maggiore sicurezza conduce al risultato opposto.
All’indomani della strage, quello che rimane di Corinaldo è un Paese dove si dice mai più, ma solo fino alla prossima tragedia. Un Paese dove tutti sono responsabili ma alla fine non lo è nessuno. Un Paese dove le regole ci sono ma nel mezzo prevalgono il guadagno e l’interesse personale. Un Paese dove tra le maglie della legge si nasconde una furbizia che uccide. Al di là delle congetture sui responsabili – da accertare ed accettare – rimarrà alla fine soltanto l’irrimediabile dolore dei genitori, amici e parenti di questi morti, insieme a un vago senso di impotenza: quella che non ci rende capaci di proteggere dei quindicenni, come se le loro morti fossero ineluttabili e non invece evitabili, inaccettabili, così come è giusto chiamarle.