L’11 maggio scorso si è celebrato il decimo anniversario della firma della Convenzione di Istanbul, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. In Turchia, dove il trattato fu firmato nel 2011, l’anniversario è stato occasione di accese proteste da parte di diversi gruppi femministi contro la fuoriuscita del Paese dalla Convenzione. Erdoğan non è però l’unico capo di Stato ad aver preso una decisione simile: anche la Polonia ha annunciato di voler stracciare l’accordo e sostituirlo con una propria carta, che dovrà essere approvata dal Parlamento. In entrambi i casi, la Convenzione è stata accusata di promuovere “l’ideologia gender” e di minare l’integrità della famiglia. In dieci anni la carta si è trasformata così dall’essere uno dei tanti trattati internazionali per la promozione dei diritti umani a oggetto di un’accesa controversia politica e religiosa, che in parte riguarda anche noi.
La Convenzione è il principale strumento di contrasto alla violenza di genere adottato in Europa ed è giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno ratificata, 34 in tutto, a cui si aggiungono quelli che l’hanno solo firmata, 12. Già prima del 2011 esistevano documenti internazionali dedicati alla lotta contro le discriminazioni, come la Cedaw (la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) firmata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nello specifico la Convenzione di Istanbul si propone di eliminare ogni forma di violenza contro le donne e si basa sui cosiddetti “quattro pilastri”: la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime, l’azione penale e le politiche coordinate, cioè tutte le strategie da mettere in atto nella società civile affinché gli altri tre pilastri funzionino. I Paesi che hanno ratificato la Convenzione sono obbligati a impostare le proprie iniziative contro la violenza di genere su questi principi, come ha fatto l’Italia – pur con qualche difficoltà – con i propri piani antiviolenza.
Per capire perché la Convenzione di Istanbul negli anni è diventata divisiva, bisogna partire dal contesto in cui è nata. Negli anni Novanta, con la diffusione e il consolidamento degli studi di genere nelle università, l’idea che la nozione di “sesso” vada arricchita con il concetto di “genere” – che va oltre il dato biologico e prende in considerazione anche le caratteristiche socialmente costruite della mascolinità e della femminilità – arriva anche in ambito istituzionale. Il banco di prova per questo cambio di rotta è la Conferenza mondiale sulle donne organizzata dall’Onu a Pechino nel 1995 a cui partecipano diversi studiosi ed esperti sul tema: in questo contesto, la parola “gender” è riconosciuta e utilizzata a livello internazionale, fatto che mette immediatamente in moto la reazione elaborata dal Vaticano di una supposta “ideologia o teoria del gender”. Dal 1994 a oggi, le grandi istituzioni internazionali e i singoli Stati producono decine di nuove carte, documenti, leggi, trattati e direttive che allargano il campo dei diritti umani e parlano, per esempio, di “discriminazioni basate sul genere” e non più di “discriminazioni basate sul sesso”.
Tra queste c’è anche la Convenzione di Istanbul, i cui negoziati sono cominciati nel 2008 e si sono conclusi nel 2010 con la presentazione della bozza del testo. La grande novità della Convenzione sono le definizioni introdotte all’articolo 3, e in particolare quella al comma c: “con il termine ‘genere’ ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. La carta vincola la stessa definizione di “violenza nei confronti delle donne” al genere, specificando come questa particolare tipologia di violenza si fondi su di esso, colpendo le donne “in quanto tali”.
Il diffuso utilizzo di questa parola all’interno del documento è stato sin da subito oggetto di controversia da parte di autorità religiose, politici conservatori e anche delle cosiddette “femministe gender critical”, che rivendicano una differenza sessuale naturale e assoluta e si oppongono all’idea che il genere sia una categoria valida. Per molti di questi soggetti, la Convenzione trascenderebbe i suoi obiettivi, imponendo il riconoscimento legale di un “terzo genere” o dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Lo stesso Senato italiano nel ratificare la convenzione depositò al Consiglio d’Europa una nota verbale con cui dichiarò che “applicherà la Convenzione nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali”, perché la definizione di genere “è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l’impianto costituzionale italiano”.
Negli anni, anche grazie alla continua crescita dei movimenti anti-gender, la Convenzione di Istanbul è diventata bersaglio di critiche sempre più feroci, specialmente nei Paesi dell’est Europa e a maggioranza ortodossa che non l’avevano ancora ratificata. Nel 2018, la Consulta della Bulgaria l’ha dichiarata incostituzionale proprio nella sua definizione di genere, perché “relativizza il confine tra i due sessi, maschio e femmina così come determinati biologicamente” dal momento che “l’assenza di una nozione comune del concetto di genere si palesa nell’accesa discussione sociale e politica a favore e contro l’ideologia gender”, mentre la Chiesa ortodossa bulgara ha definito il documento una forma di “decadimento morale”. Anche la Slovacchia non ha ratificato la Convenzione perché, come disse l’allora primo ministro Robert Fico, “parla di stereotipi e di uguaglianza di genere per eliminare i cosiddetti ruoli tradizionali dell’uomo e della donna nella famiglia […] Finché non ci sarà piena conformità nella convenzione della definizione di matrimonio come di un legame tra un uomo e una donna, non sarò mai favorevole alla ratifica”. L’Ucraina ha firmato la convenzione senza ratificarla e il Consiglio ucraino delle chiese e organizzazioni religiose ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “la maggioranza delle persone in Ucraina non supporta la sua ratifica [perché] impone l’ideologia gender, che non riguarda la protezione contro la violenza domestica, ma nuoce gravemente i principi morali e i valori della famiglia della società ucraina”. Lo scorso anno anche l’Ungheria ha rifiutato di ratificare la Convenzione, non solo perché promuoverebbe un’“ideologia gender distruttiva”, ma anche “l’immigrazione illegale”, con riferimento alle politiche di asilo per le persone LGBTQ+ presenti nel documento. La Croazia ha invece ratificato la convenzione nel 2018, pur tra le proteste di piazza.
Come scrive il politologo Massimo Prearo, la contestazione al “gender” non è solo una contestazione di tipo ideologico, quanto più a un paradigma democratico, alla “concretizzazione politica e istituzionale del processo di secolarizzazione delle società europee attraverso politiche pubbliche in materia di genere, sessualità e famiglia”, che escono dal campo della morale o della teologia e diventano oggetto giuridico. Di conseguenza, il “gender” va combattuto nelle stesse sedi e con gli stessi strumenti con cui viene propagandato, per esempio la Convenzione di Istanbul. Sempre nel 2018, più di trecento organizzazioni non governative hanno scritto una lettera al Consiglio di Europa affinché eliminasse l’“ideologia gender” dalla Convenzione. Il Consiglio ha più volte risposto a queste obiezioni, pubblicando dei memorandum che chiariscono gli scopi della Convenzione ed evidenziano come non sussista nessun obbligo a riconoscere l’esistenza di un “terzo sesso” o dei matrimoni omosessuali, pur includendo tra i suoi obiettivi “ogni misura positiva in tal senso”.
Ma, prima della Turchia, nessun Paese era uscito dalla Convenzione. Le motivazioni sono le stesse dei Paesi che non l’hanno voluta ratificare: come dichiarato dal direttorato delle comunicazioni del presidente turco, la Convenzione “è stata dirottata da un gruppo di persone che vogliono normalizzare l’omosessualità, che è incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia”. L’uscita della Turchia è ancora più grave anche per la modalità con cui è avvenuta, e cioè attraverso un decreto presidenziale e senza un dibattito parlamentare. Anche la Polonia si prepara a un iter simile: il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro ha avviato nel luglio 2020 le procedure per uscire dalla Convenzione, mentre il Parlamento polacco a breve discuterà il testo che la sostituirà, intitolato significativamente Sì alla famiglia, no al gender. Il testo è stato scritto dall’influente istituto giuridico Ordo Iuris, il cui direttore Aleksander Stepkowski è membro della Corte suprema che ha emesso la recente sentenza che vieta l’aborto in Polonia.
È improbabile che un Paese come l’Italia segua un destino simile, ma anche da noi l’idea che il concetto di genere sia troppo vago o troppo ampio è molto diffusa nell’opinione pubblica, nonostante sia presente non solo nella Convenzione di Istanbul, ma anche in diverse sentenze e in particolare nella n. 221 del 2015 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto “il diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”. Basti pensare al dibattito che si sta svolgendo intorno al ddl Zan, che secondo i detrattori legittimerebbe una arbitrarietà del concetto di genere per cui chiunque potrebbe farsi passare per donna per entrare nei bagni femminili, oppure che – non si sa bene come – consentirebbe l’“utero in affitto”.
Se è facile inorridire di fronte alle scelte dittatoriali della Turchia o all’estremismo religioso di Orbán, bisogna contrastare con la stessa forza ogni manipolazione dei concetti di genere e di identità di genere anche nel nostro Paese. Ribadendo che non hanno niente a che fare con una presunta “ideologia gender” e che non solo fanno parte da decenni del dibattito scientifico, ma anche delle leggi che abbiamo adottato.