Avere le mestruazioni non può essere una colpa. Serve una legge sul congedo mestruale. - THE VISION
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Il 16 febbraio il Congresso dei deputati spagnolo ha approvato in via definitiva una complessa riforma relativa al riconoscimento dell’autodeterminazione di genere delle persone minorenni – la cosiddetta “Legge trans” – e alla salute sessuale e riproduttiva della popolazione. Fra le novità promosse dalla ministra dell’Uguaglianza Irene Montero spiccano, in particolare, l’istituzione di una serie di norme volte a garantire un accesso all’aborto libero, sicuro e gratuito a tutte le persone con più di sedici anni e l’introduzione, per tutte le lavoratrici dipendenti, della possibilità di accedere a tre giorni di congedo lavorativo pienamente retribuito in caso di “mestruazioni invalidanti”, da richiedere attraverso la presentazione di un certificato medico. Il periodo in questione sarà interamente sovvenzionato dallo Stato: in Europa, non era mai successo prima.

Nonostante l’Italia sia ancora ben lontana dall’approvazione di una legge simile, negli ultimi mesi non sono mancati alcuni sporadici tentativi, soprattutto da parte di alcuni istituti scolastici. Il primo a formalizzare l’introduzione di un congedo mestruale per tutte le studentesse che soffrono di dismenorrea (l’insieme dei disturbi che colpiscono alcune donne nel periodo delle mestruazioni, caratterizzati da crampi addominali, dolori alle gambe e alla schiena e, in alcuni casi, mal di testa, nausea e vertigini) è stato, a dicembre 2022, il liceo “Nervi Severini” di Ravenna, seguito, nelle settimane successive, anche da alcuni istituti di Torino, Roma e Civitavecchia. Nel contesto lavorativo, pioniera dell’iniziativa è stata invece un’azienda veneta specializzata in logistica: a partire dallo scorso settembre, le dipendenti della ditta possono beneficiare di un giorno al mese di congedo retribuito, senza l’obbligo di esibire alcun certificato medico. Si tratta, tuttavia, di un caso più unico che raro.

In diversi Paesi extra-europei, soprattutto asiatici – come Taiwan, Corea del Sud, Vietnam e Indonesia – il congedo mestruale rappresenta ormai una realtà consolidata. In Giappone, l’istituzione di una generica forma di permesso (seppur non sempre retribuito) per le donne che vivono i giorni delle mestruazioni con “particolare difficoltà” risale addirittura al 1947, mentre dal 2017 il congedo mestruale ha fatto il suo ingresso anche in Zambia. In Italia, un tentativo di introdurre il tema nel dibattito parlamentare risale invece al 2016, con la presentazione da parte di alcune deputate del Pd, di una proposta di legge intitolata “Istituzione del congedo per le donne che soffrono di dismenorrea”: nel giro di alcuni mesi, la proposta è stata però progressivamente accantonata dalla Camera.

Alcune settimane fa la questione è nuovamente tornata al centro della discussione grazie all’iniziativa di alcune esponenti dell’alleanza Verdi-Sinistra, guidate dalla deputata Elisabetta Piccolotti. Il disegno di legge in questione prevede, oltre all’istituzione di due giorni di congedo mestruale scolastico e lavorativo – con quest’ultimo indipendente dal tipo di contratto e pienamente retribuito –, l’inserimento dei contraccettivi ormonali nei livelli essenziali di assistenza e la possibilità per le farmacie di distribuirli gratuitamente come “fattore utile a lenire cicli dolorosi”, previa la presentazione di una ricetta medica. Come nota la deputata e firmataria del ddl Eleonora Evi non si tratta di un piano particolarmente ambizioso, ma di una “proposta di civiltà”, il minimo sindacale in un Paese in cui, ancora oggi, spesso soffrire di mestruazioni dolorose non rappresenta una condizione meritevole di empatia, cura e attenzione, ma una sorta di colpa della quale le donne sono tenute a farsi carico da sole.

Elisabetta Piccolotti

Fra i principali argomenti contrari all’stituzione di un congedo mestruale vi è il timore che la misura si trasformi in un ulteriore motivo di discriminazione in sede di assunzione, al pari della possibilità di rimanere incinte o di ricorrere al part-time per prendersi cura dei figli: tutte condizioni che, con diversa frequenza, manterrebbero la donna temporaneamente distante dal luogo di lavoro, complicando in teoria – nella prospettiva di chi assume – l’organizzazione aziendale. Al di là dell’evidente matrice sessista di queste considerazioni – rispetto alla quale la risposta più efficace non è certo la rinuncia delle donne a far valere i propri diritti – la verità è che, però, la dismenorrea incide già sulla produttività delle dipendenti.

Secondo uno studio del 2017, condotto coinvolgendo quasi 33mila studentesse e lavoratrici in età fertile, ogni anno una donna perde in media l’equivalente di nove giorni di lavoro a causa del cosiddetto presenteismo, ovvero la scelta di presentarsi sul luogo di lavoro nonostante l’evidente difficoltà – fisica e psicologica – a portare a termine i propri compiti. A ciò si aggiungono, poi, i tassi di assenteismo direttamente associati alla dismenorrea: fra il 13 e il 51% per le studentesse e fra il 5 e il 15% nel caso delle lavoratrici, con valori nuovamente superiori nel caso dell’endometriosi. Per chi soffre di mestruazioni dolorose, prendersi cura di sé nei giorni di maggior sofferenza dovrebbe costituire un diritto, indipendentemente dalle ripercussioni che la propria condizione è in grado di determinare sulla produttività aziendale. È altrettanto vero, tuttavia, che consentire alle lavoratrici di rimanere a casa per gestire i propri sintomi non gioverebbe solo alla loro salute, ma anche al benessere dell’azienda, riducendo le ore di lavoro perse a causa del dolore, dello stress e del calo di motivazione inevitabilmente associati alla dismenorrea.

Fra le perplessità suscitate dalla proposta si ritrova, poi, quella per cui consentire alle lavoratrici di accedere al congedo mestruale finirebbe per rafforzare gli stereotipi relativi alla condizione emotiva e ormonale delle donne nei giorni delle mestruazioni, dalla falsa convinzione per cui la presenza del ciclo implicherebbe una ridotta capacità di ragionare, a quella per cui le mestruazioni rappresenterebbero sempre e comunque una condizione invalidante. È triste che nel 2023 sia ancora necessario ribadirlo, ma il fatto che esistano disturbi legati al ciclo mestruale non significa che le mestruazioni costituiscano esse stesse un disturbo: come nota la docente di psicologia sociale presso il College of New Jersey Jessica Barnack-Tavlaris, sarebbe quindi importante abbinare alle nuove politiche di congedo mestruale la promozione di progetti educativi in grado di decostruire la complessa architettura di stigma che da sempre circonda il discorso sulle mestruazioni, svincolandole, fra le altre cose, dal senso di repulsione e vergogna che le accompagna.

Al di là del benaltrismo di chi, a fronte di proposte che esulano dai propri interessi, è solito rispondere che “ci sono cose più importanti”, la questione non ha a che fare soltanto con la valutazione della legge, ma anche con la formazione degli specialisti e la necessità di sensibilizzare le donne rispetto alla necessità di interpretare al meglio i segnali del proprio corpo, soprattutto se invalidanti, andando a indagarli invece di sottovalutarli. Per fare ciò sarebbe fondamentale affrontare in maniera specifica il discorso fin da giovani, attraverso corsi di educazione sessuale, magari capace anche di far capire anche ai maschi il dolore che molte donne sono costrette a sopportare tutti i mesi, invece di invalidarlo o liquidarlo alla stregua di una lamentela. A oggi, purtroppo, la possibilità di accedere a un congedo mestruale non esiste nemmeno per le donne che soffrono di dismenorrea secondaria, associata cioè a una precisa anomalia della zona pelvica – generalmente endometriosi, adenomiosi o fibromi uterini, ma anche cisti o malformazioni ereditarie. In questi casi, rimanere a casa cercando di sopportare e lenire per quanto possibile il dolore invece di recarsi a scuola o al lavoro non solo rappresenta, spesso, l’unica opzione possibile, ma rientra fra i sintomi di patologie riconosciute e universalmente giudicate invalidanti – seppur, ancora oggi, fortemente invisibilizzate. Se da un lato è essenziale promuovere la ricerca, sarebbe ipocrita negare che simili patologie esistano e possano rendere la quotidianità un inferno. Chi ne soffre – molte più donne di quanto si possa pensare – ha diritto a non essere penalizzata – né colpevolizzata – per questo.

È proprio a causa del cancellamento delle mestruazioni dal discorso sociale che, secondo molti, anche qualora la misura venisse approvata, sarebbero in poche le donne disposte a richiederla, sia per timore di subire ripercussioni – relative per esempio al giudizio dei colleghi o dei datori di lavoro – sia perché parlare esplicitamente di mestruazioni è qualcosa che, da sempre, tendiamo a evitare. Accedere al congedo mestruale, d’altra parte, significherebbe valorizzare i propri bisogni di essere umano in misura maggiore rispetto alla propria funzione sociale: esattamente il contrario di ciò che, in una società iper-performativa come quella attuale, le persone – soprattutto le donne – vengono istruite a fare. Pretendere la parità fra i generi non significa negare l’esistenza di qualsiasi differenza biologica individuale, ma smettere di interpretarla in senso svalutativo: un’inversione di paradigma da perseguire anche riconoscendo, a chi soffre di mestruazioni dolorose, il diritto di tutelare la propria salute senza paura, vergogna o inutili sensi di colpa.

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