Premessa: questo pezzo, anche se può sembrarlo, non è un pezzo sui vaccini e i no-vax, è un pezzo sull’analisi logica, la capacità critica e il marketing dell’informazione contemporanea. Lo scrivo perché negli ultimi giorni ho visto condiviso un articolo su molte delle bacheche dei miei contatti, anche su quelle di persone che stimo e reputo intelligenti e colte, ma soprattutto di persone che lavorano coi pensieri e con le parole, che sono in fondo il mezzo per esprimere nel modo più esatto possibile quei pensieri. Dunque mi sono stupita che queste persone, che hanno dimestichezza con la forma del pensiero, condividessero un pezzo aspettandosi che portasse materiale di un certo peso a favore della loro causa, mentre in realtà – a parte qualche citazione imponente – non diceva niente di tutto ciò che il titolo prometteva, per di più senza dare importanza al fatto che rispetto a un titolo che parlava di “responsabilità morale”, nulla nell’articolo sviluppasse l’argomento, con effetti paradossalmente controproducenti al loro stesso intento. Così nasce l’analisi di questo breve pezzo di Repubblica titolato: “Ue: ‘I no vax responsabili morali per la morte di diversi bambini’”. Titolo molto pesante, non c’è bisogno di dirlo, che attira inevitabilmente l’attenzione.
Come dicevo, si parla di “responsabilità morale” per la morte di “diversi bambini”. Nel pezzo, però, non si fa mai riferimento alla morte di questi ultimi, se non tangenzialmente, quando viene riportato che il Commissario europeo alla Sanità, Vytenis Andriukaitis, come risposta alla domanda sulle posizioni del Movimento 5 Stelle (non si sa sollevata da chi), ha consigliato ai genitori no-vax di “fare il giro dei cimiteri europei, dove ci sono ancora tombe di persone morte all’inizio del 19esimo secolo perché non c’erano vaccini”. A parte che non so quanto senso abbia paragonare il tasso di mortalità del 19esimo secolo al nostro, dopo la citazione di queste frasi del Commissario alla Sanità, si potrebbe pensare che l’argomento venga approfondito, se non proprio che il rapporto di cui si parla si soffermi ampiamente su questa tematica. L’articolo invece prosegue con un discorso che niente ha a che vedere coi vaccini: è infatti un semplice pezzo di cronaca estera, non un pezzo di approfondimento.
Leggete ad esempio questo passaggio: “In generale, secondo la Commissione Ue, nel nostro Paese la qualità della salute è da promuovere. L’aspettativa di vita è tra le più alte dell’Ue, consumo di tabacco e alcolici è inferiore della media europea, ma l’obesità infantile è in aumento. Dallo studio di Bruxelles emerge poi che in Italia la spesa sanitaria pro-capite è più bassa del 10% rispetto agli altri paesi ma che, sebbene molti servizi siano gratuiti, le spese vive sono più alte soprattutto a causa di farmaci e cure dentistiche.” Vi sembra che tutto fili liscio da un punto di vista logico? A una prima lettura forse sì. Ma riflettendoci un momento e analizzandolo sorge qualche dubbio. All’inizio si dice che nel nostro Paese la qualità della salute è da promuovere. E il primo pensiero che può venirci in mente a una prima lettura è: se dicono che la qualità della salute è da promuovere è perché nel nostro Paese la qualità della salute non è abbastanza alta, o non abbastanza tenuta in considerazione. Invece no, falso. Potrebbe benissimo intendersi che è da promuovere all’estero come esempio. Perché la frase subito dopo continua affermando che “l’aspettativa di vita, nel nostro Paese, è tra le più alte dell’Unione Europea, e il consumo di tabacco e alcolici è inferiore della media europea”. Evviva. “Ma l’obesità infantile è in aumento.” Ok, su questo versante possiamo migliorare, sensibilizzando l’opinione pubblica per tutto quel che riguarda l’importanza di un’alimentazione corretta. Ma tornando alla nostra analisi, l’inizio della frase allora non sarebbe potuto essere meno ambiguo? E il titolo? Non sarebbe dovuto essere diverso visto che si sta parlando di un report sullo stato della salute in generale all’interno dell’Unione Europea?
Il pezzo si conclude dicendo che “il rapporto [sullo stato della salute nell’Unione] evidenzia infine le disparità tra i servizi sanitari regionali, e l’impatto delle crescenti diseguaglianze sociali sulla salute dei cittadini, ma anche le misure in corso per risolvere la situazione”. Il tema è universalmente noto, soprattutto in riferimento all’obbligatorietà dei vaccini. In Italia si sta infatti cercando di “omologare” le Regioni, offrendo a tutti i nuovi nati i vaccini necessari, mentre una volta c’erano disparità notevoli – ad esempio, per quanto riguarda il vaccino antimeningococco B, che alcune Aziende Sanitarie Locali offrivano, con differenze sensibili del ticket, ed altre no – obbligando in molti casi i cittadini che volevano vaccinare i figli a farlo privatamente. Eppure neanche stavolta nessun dato, nessuna fonte, nessun link, nessun riferimento diretto. Ancora una volta, cosa c’entra tutto questo con quel titolo importante? Con i genitori no-vax? Con le accuse morali? Nulla.
Si direbbe che i contenuti di questa presentazione siano stati filtrati in modo relativamente fazioso. Si prende un evento come pretesto, si dà un titolo che fa risuonare un tema importante e complesso e si cerca di far passare un’opinione, per quanto autorevole e professionale, nata da una domanda contingente, come centro ed esito di un rapporto che parla della condizione generale della sanità in Europa e non del tema particolare dei vaccini. Ditemi, allora: perché lo condividete sulle vostre bacheche? Credete di giovare in questo modo all’argomentazione della vostra tesi?
Sempre più spesso leggiamo articoli il cui titolo dice una cosa, mentre il contenuto ne dice un’altra. In quel caso, li condividiamo per il loro titolo – dando per scontato che la maggior parte dei nostri contatti non ci cliccherà sopra e non li leggerà davvero – o per il loro effettivo contenuto? O magari anche noi li abbiamo condivisi senza averli letti, perché ci siamo fidati della testata di riferimento. In questo caso la domanda è: nonostante tutto, crediamo che le grandi testate italiane abbiano ancora un certa affidabilità? Quant’è in grado di influenzare e dare una direzione alla nostra interpretazione dei contenuti un titolo? Non voglio fare l’ingenua. C’è poco tempo, soprattutto per leggere, e le informazioni sono tante e sempre più veloci, i titoli sono ormai diventati réclame e le idee slogan. Vince quello più forte, quello che in un dato momento della giornata o della settimana è in grado di evocare alle nostre orecchie e al nostro istinto ciò in cui crediamo, senza motivarlo, senza portare ulteriore materiale alla discussione, viene data la precedenza a quello che fa entrare in risonanza i nostri desideri di conferma, in una sorta di braccio di ferro mediatico.
Negli ultimi tempi alcune testate italiane e internazionali si sono divertite a fare alcuni esperimenti, come ad esempio Udine Today o il sito satirico The Science Post. Come dice uno degli autori di questo studio della Columbia University e del French National Institute, Arnaud Legout, “abbiamo più voglia di condividere che di leggere”: tanto che il 59% dei link sui social media non sono mai stati effettivamente aperti da chi li ha condivisi. E ovviamente non c’è nemmeno bisogno di dire che queste condivisioni alla cieca influenzano l’algoritmo. “Questa è una caratteristica tipica del nostro consumo di informazioni,” continua Legout, “la gente si forma un opinione basata su un riassunto, o sul riassunto di un riassunto, senza fare alcuno sforzo per approfondire.”
Lo avete fatto anche voi? Vi siete fidati? Pensate che nessuno lo leggerà? Che cosa volete sostenere? Spiegatemelo perché quel pezzo, come molti altri che si vendono sempre più spesso in rete, non è in grado di farlo. L’unica cosa che è in grado di fare è di indurmi a sospettare della capacità di discernimento delle informazioni che viaggiano in internet, da parte degli autori e da quella dei lettori.
Tranquilli, però, perché l’attitudine a impegnarci nella ricerca distorta delle informazioni che sostengono le nostre idee è stata ripetutamente dimostrata. Secondo lo psicologo Raymond Nickerson, il confirmation bias è infatti “la ricerca o l’interpretazione di prove in modo che siano favorevoli a esistenti credenze, aspettative o ipotesi.” Vari esperimenti hanno confermato che tendiamo a verificare la validità delle nostre ipotesi cercando prove coerenti con le stesse, piuttosto che considerare tutte quelle rilevanti e valutarle per approfondire, ampliare o modificare la nostra visione del mondo, del problema o anche solo di un argomento. Tendiamo così a porci già le domande che generino esclusivamente le risposte a sostegno delle nostre idee, e cerchiamo i risultati che confermano la validità delle nostre ipotesi, senza considerare quelli che le metterebbero in crisi.
Secondo la psicologia cognitiva questa si tratta di una forma di autoinganno importante, perché a quanto pare nessuno ne è immune, e per la quale sono state proposte diverse cause, tra cui la difesa della nostra identità personale. Difendiamo con forza e a qualsiasi costo le idee, i principi e le visioni su cui si basa la nostra identità, che spesso coincidono con quelle del gruppo sociale nel quale siamo cresciuti e nel quale ci siamo formati, o a cui vogliamo appartenere, e che se rigettate danneggerebbero il nostro senso di appartenenza. Siamo sicuri che i vegetariani (o ancora di più i vegani) – per citare due categorie tra le tante e uno tra i più grassi dibattiti scientifici e culturali della nostra epoca – non ci infastidiscano tanto proprio perché a livello inconscio la nostra identità si sente minacciata? Perché una parte di noi, magari la più originaria, ha paura che possano in qualche modo avere ragione, e quindi “costringerci” a cambiare?
Le evidenze sperimentali che Nickerson riporta nel suo studio del 1988 – Confirmation Bias: A Ubiquitous Phenomenon in Many Guises – risuonano infatti in vari ambiti della nostra vita sociale, tra cui in particolare quello politico, scientifico, giudiziario e medico. Primo fra tutti l’esempio della caccia alle streghe. Tra il 15esimo e il 17esimo secolo in Europa occidentale la gente era talmente convinta dell’esistenza delle streghe che vennero giustiziate e perseguitate decine di migliaia di donne. Ma se pensate che i tempi siano cambiati sappiate che nemmeno la medicina moderna si salva. Le conoscenze in quest’ambito sono rimaste stagnanti per più di 1500 anni e la tendenza prevalente è sempre stata quella di concentrarsi sui casi positivi, cioè sui casi in cui alle cure mediche seguiva un recupero fisico. La scoperta che alcune malattie hanno invece una storia naturale e da esse in molti casi si guarisce senza alcun trattamento medico è una scoperta accettata solo di recente. Il confirmation bias ostacola così involontariamente la valutazione pubblica di opinioni e argomentazioni, favorendo la propaganda politica, la scarsa credibilità dei media, la manipolazione delle opinioni e il conformismo sociale. E tutto questo accade anche perché spesso condividiamo il titolo di un articolo che parla di tutt’altro.
Come ha scritto lo psicologo K.E. Stanovich “è una notevole difficoltà cognitiva, dato che un tema ricorrente nella letteratura del pensiero critico è che i pensatori critici dovrebbero essere in grado di separare le loro credenze ed opinioni pregresse dalla valutazione di prove ed argomenti.” Stanovich ha inoltre evidenziato la differenza tra razionalità e intelligenza. Anche le persone intelligenti infatti avrebbero molti comportamenti irrazionali, poiché spesso neanche quest’ultime posseggono quell’insieme di competenze – regole cognitive, strategie, sistemi di credenza – che l’essere umano impiega per prendere decisioni e tendono invece a basarsi sul proprio intuito. “Mentre è vero che gli individui più intelligenti imparano più di quelli meno intelligenti, molta conoscenza (e molti atteggiamenti di pensiero) indispensabili per la razionalità vengono appresi piuttosto tardi nella vita. L’insegnamento esplicito di queste conoscenze non è uniforme nei curriculum scolastici […]. Il fatto che questi principi vengano insegnati in modo contraddittorio e incoerente ha come conseguenza che molte persone intelligenti non apprendano i principi del pensiero critico.”
Bisognerebbe quindi esercitarsi costantemente a essere animali razionali, visto che a quanto pare non lo siamo per natura e non ce lo insegnano a scuola, cosa che forse sarebbe l’unica a valer veramente la pena di essere imparata.