Come il concetto di perdono viene usato contro le minoranze

Eve Ensler, autrice femminista famosa in tutto il mondo per i suoi Monologhi della vagina, nel 2019 ha pubblicato un libro che ha fatto scalpore, Chiedimi scusa, in cui immagina che il padre che ha abusato di lei dall’età di cinque anni le scriva una lunga lettera ammettendo le violenze compiute. “Era da tutta la vita che aspettavo delle scuse da parte di mio padre. Ho aspettato e sperato che si scusasse prima di morire, ma non lo ha mai fatto. Così sono andata a prendermi quelle scuse”, scrive. Chiedimi scusa è un espediente narrativo che aiuta l’autrice a superare il passato, ma che allo stesso tempo le consente di parlare di un grande tema con il quale chi ha subìto una qualsiasi violenza è costretto a confrontarsi: il perdono.

Il perdono è un grande valore della cultura cristiana che, anche in tempi di secolarismo e laicità (almeno a parole), ha ancora una sua importanza. Non è raro vedere al telegiornale interviste ai parenti delle vittime di un omicidio a cui viene chiesto, magari solo poche ore dopo il fatto, se sono disposti a perdonare l’assassino. Ma a dispetto della fretta imposta dal sensazionalismo, il perdono è solitamente un percorso lungo e difficile e, soprattutto, non obbligatorio. Talvolta questo gesto si trasforma in una sorta di ricatto morale con cui si cerca di convincere le persone che se non perdoneranno chi ha fatto loro un torto non potranno superare davvero il trauma, aggiungendo ulteriore cattiveria rispetto a quella che hanno subìto. Ma il modo in cui le persone reagiscono al dolore non può essere semplificato nell’opposizione tra perdono e rancore.

Eve Ensler

Anzi, proprio perché il perdono è una decisione difficile da prendere e una strada che non tutti sono disposti a compiere, non si può mettere sullo stesso piano chi nega una riconciliazione e chi ha commesso un omicidio, una violenza sessuale o un attacco terroristico. Ci sono alcune persone per cui il perdono diventa un’imposizione: i gruppi sociali storicamente oppressi sono quelli da cui si aspetta una supposta superiorità morale (secondo lo stereotipo della Model Minority, la minoranza modello) in grado di superare qualsiasi dolore attraverso il gesto catartico dell’assoluzione, anche se questo gesto è tutt’altro che dovuto.

Il 25 luglio 2015 a Charleston, in South Carolina, Dylann Roof è entrato in una chiesa metodista frequentata soprattutto da afroamericani e ha compiuto una strage, uccidendo nove persone. Nel 2017, Roof è stato condannato a morte, condanna che sta ancora attendendo al penitenziario di Terre Haute, in Indiana, dove vengono eseguite le sentenze capitali federali. La conclusione del processo del suprematista bianco ha riacceso nell’opinione pubblica americana una discussione che era già nata all’indomani dell’attentato, quando alcuni parenti delle vittime avevano detto a Roof – che per tutto il tempo è rimasto impassibile – di essere disposti a perdonarlo. Sicuramente il credo religioso ha avuto un peso nella scelta di queste persone, ma secondo molti opinionisti afroamericani, le persone nere subirebbero la pressione dell’opinione pubblica nel perdonare i crimini d’odio. Come ha scritto il giornalista Brandon Tensley, le persone bianche si aspettano che quelle nere reagiscano in un certo modo persino di fronte a un evento del genere, e cioè in modo pacato e rispettabile: “C’è un’aspettativa tossica nei confronti delle persone nere di piangere come se questo odio razziale fosse inevitabile, come se questa violenza contro i corpi neri non avesse delle radici”. Questa è infatti una delle ragioni per cui l’opinione pubblica si aspetta che le donne, i neri e le persone della comunità LGBTQ+ siano sempre disposte a porgere l’altra guancia, ed è la convinzione che la loro oppressione sia qualcosa che va accettato come tale, quasi passivamente (e forse, anche in questo caso, la religione ha la sua parte di responsabilità). Per questo motivo, ogni reazione diversa dalla rassegnazione – soprattutto la rabbia – viene così stigmatizzata.

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Dylann Roof

Il sottinteso è che, non essendoci modo di cambiare le cose, almeno si dovrebbe dimostrare la dignità di perdonare assassini e stupratori. Ma, come ha scritto Roxane Gay sempre a proposito del caso di Dylann Roof, “La mia mancanza di perdono è un monito per ricordare che esistono azioni talmente terribili che dovremmo riconoscerle come tali e basta. Dovremmo riconoscere che vanno oltre il perdono”.

Quando Christine Blasey Ford testimoniò alla commissione giudiziaria del Senato americano contro il giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh, che accusava di tentato stupro ai tempi del college, non si scompose mai. Kavanaugh, invece, perse le staffe molte volte, urlando e agitandosi. Molti lodarono Blasey Ford per la sua compostezza, ma in realtà, come fecero notare alcuni commentatori, il suo atteggiamento pacato era dovuto al fatto che non si sarebbe potuta permettere di mostrarsi arrabbiata o rancorosa – pena essere considerata un’isterica. Kavanaugh, invece, in quanto uomo di potere, aveva il privilegio di potersi scomporre senza che la sua credibilità venisse messa in dubbio – e infatti il Senato ha confermato la sua nomina per assenza di prove, mentre Blasey Ford, a causa delle minacce ricevute, non è ancora potuta tornare a insegnare all’università. Nel frattempo altre due donne, Deborah Ramirez e Julie Swetnick, hanno avanzato altre accuse contro il giudice.

La conseguenza dello stigma legato alla rabbia e al risentimento di categorie come le donne e i neri è il pregiudizio secondo cui chi è vittima di oppressione dovrebbe dimostrare costantemente alla società di essere inoffensivo ed esclusivamente mosso da buoni sentimenti. Questo genera una feticizzazione del perdono, in cui l’assoluzione diventa così centrale da oscurare il torto (o il crimine) commesso.

Christine Blasey Ford

Sembra questo ciò che emerge delle scuse pubbliche e tardive che alcuni governi rivolgono, magari a distanza di secoli, alle vittime di fenomeni come la schiavitù, il colonialismo o le persecuzioni nei confronti della comunità LGBTQ+. Molto spesso queste richieste di perdono suonano più come un invito a non portare rancore (e quindi a non causare problemi) che come un doveroso mea culpa. Sempre per citare Gay, “Le persone bianche abbracciano le narrative del perdono così possono fingere di vivere in un mondo più giusto di quanto non sia in realtà, e che il razzismo sia una mera traccia di un passato doloroso e non una componente indelebile del nostro presente”.

Questa feticizzazione dell’assoluzione va contro uno dei suoi stessi principi: il perdono non può essere monodirezionale. Non solo da un lato deve esserci una persona profondamente convinta e desiderosa di riconciliarsi, ma dall’altro dev’esserci anche qualcuno disposto a riconoscere di aver sbagliato. Interessante, a questo proposito, è la storia di Thordis Elva e di Tom Stranger. Elva, una giornalista e scrittrice islandese, nel 1996 è stata stuprata all’età di 16 anni da Stranger, che all’epoca era uno studente australiano in Islanda per un programma di scambio. Nel 2005, Elva ha deciso di scrivere una mail a Stranger (che era tornato in Australia): “Potrebbe servirti una vita per perdonare a te stesso ciò che hai fatto. Ciò riguarda solo te e puoi prenderti tutto il tempo che ti serve, indipendentemente da tutto il resto. Tuttavia, io sto scalando una montagna diversa. E sono molto vicina alla cima”. Nel 2013, dopo 8 anni di corrispondenza, si sono incontrati di persona a Cape Town, in Sudafrica, città a metà strada che da anni tenta la riconciliazione con il suo passato (e presente) di apartheid. Da questo incontro è nato un libro, South of Forgiveness, e una TedTalk che però, come dicono i due autori, non riguarda tanto il perdono, quanto un’assunzione pubblica di responsabilità. Solo così Elva e Stranger hanno potuto fare qualcosa di significativo non solo per loro stessi, ma anche per la società.

Thordis Elva e Tom Stranger (2017)

Superare un trauma è qualcosa che non si risolve in pochi giorni, né un traguardo a cui giungono tutte le vittime di violenza. Insistere sull’importanza del perdono, quasi a prescindere dallo stato della persona a cui viene richiesto, è il modo più semplice per invalidare le sue emozioni e la sua esperienza. E non è un caso che questa richiesta venga fatta soprattutto alle categorie a cui la società impone dei modelli di comportamento univoci. Il perdono deve essere dato e accolto solo da chi lo vuole dare davvero, e non per il beneficio di un pubblico che fa finta che vada sempre tutto bene.

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