Contrastare la violenza contro le donne significa anche smetterla di parlarne solo con toni pietisti - THE VISION

Qualche giorno fa la AS Roma ha pubblicato sui suoi profili social un video contro la violenza sulle donne. L’iniziativa, promossa dalla società insieme al comune e alla onlus Roma Cares, è stata poi presentata dalla sindaca Raggi in una conferenza al Campidoglio. La prima cittadina ha annunciato con orgoglio lo scopo della campagna, ovvero la vendita di un calendario raffigurante le mogli dei calciatori in posa per le strade di vari quartieri della capitale. Il ricavato verrà donato ad associazioni del territorio in grado di offrire alle donne vittime di violenza un percorso di formazione e di sostegno psicologico. “È fondamentale garantire a queste persone la consapevolezza di potercela fare da sole”, ha affermato la Raggi, poco dopo aver sottolineato in modo quantomeno approssimativo come nella maggior parte dei casi la dipendenza economica della vittima nei confronti dell’aggressore sia la principale causa per cui la violenza non viene denunciata. Fra un’uscita infelice del CEO del club Guido Fienga – “Gettare il cuore oltre l’ostacolo è più da donna che da uomo” – le domande svogliate dei giornalisti e gli smaglianti sorrisi di Amra Dzeko – moglie del capitano giallorosso e testimonial dell’evento – la conferenza si è conclusa lasciando più di qualche perplessità sulla complessiva efficacia dell’operazione. In che modo vendere l’immagine delle consorti dei calciatori aiuterebbe le donne a emanciparsi? Pratiche del genere, che si inseriscono in un vecchio solco di oggettificazione della donna, più che combattere il sessismo rischiano in maniera paradossale di alimentarlo. Le immagini sono infatti smaccatamente artificiose e ispirate a stereotipi retrogradi e superficiali. La mano a coprirsi il volto o la scritta “Basta” sul braccio, per citare due tra i tanti esempi, sono elementi già visti e rivisti, che non sono in alcun modo capaci di suscitare alcuna reazione.

Già il video, del resto, si era dimostrato emblematico per la capacità di racchiudere all’interno dei suoi due minuti tutto ciò che sarebbe ormai auspicabile eliminare dal racconto sulla violenza di genere. Con le sue slide e le sue fotografie – esposte senza una narrazione efficace – più che a un prodotto istituzionale il filmato assomiglia di più al lavoro di fine anno di un qualunque corso di grafica per principianti. La colonna sonora, struggente e tetra fin dall’inizio, ci ricorda a ogni istante che lo stiamo guardando in primis per commuoverci. Due voci annunciano accorate alcuni slogan e dati che nulla smuovono in noi. Dal trucco grossolano che forma i lividi intorno agli occhi delle modelle al bianco e nero usato come elemento drammatico, ogni scelta è forzatamente tesa a impietosire, finendo per banalizzare l’argomento trattato. “Amami e basta”, la frase non proprio riuscita che dà il nome alla campagna, conclude lo spot, annullando qualsiasi tentativo di riflessione, presa di coscienza o discorso intorno alla complessità.

Martire o angelo degno di amore incondizionato, la donna si trova ancora oggi imprigionata fra questi due estremi ugualmente dannosi e fallaci. Questo modo di sensibilizzare, per quanto mosso da principi onesti e condivisibili, non funziona, non coinvolge e non produce pensiero critico. Lo dimostrano sia i numeri sempre più gravi delle denunce registrate dall’inizio della pandemia al 1522, sia lo scarso engagement di questo genere di campagne. Purtroppo l’intera comunicazione italiana sull’argomento condivide da anni gli stessi problemi di questo infelice video della Roma: facendo leva sul senso di colpa dei privilegiati li porta a investire in un oggetto per sostenere una causa che non comprendono del tutto e alleggerire così la loro coscienza con una buona azione astratta. Eppure queste in un certo senso possono considerarsi occasioni perse per sensibilizzare e responsabilizzare gli uomini. Si parla da tempo nel mondo della comunicazione di video emotional, eppure in queste occasioni il canone sembra essere di tirare in causa freddi numeri generalizzanti.

Gli spettatori vengono portati a compatire le donne che subiscono violenza, piangendo con loro, senza mai però far breccia nelle dinamiche sociali, senza spingerli a cambiare le loro idee o i loro comportamenti rispetto al problema. Manca una strategia comunicativa ambiziosa e possibilmente coordinata, un racconto radicale, la voglia e l’energia di approfondire il tema di cui si parla, trasmettendone l’urgenza prioritaria per la collettività. D’altronde non è un caso se siamo il Paese di Amore criminale, della spettacolarizzazione del dolore e della sistematica svalutazione di tutte quelle forme di violenza che non colpiscono il corpo delle donne in modo evidente, negandoci così il perbenista rituale di compiangerlo a tragedia avvenuta. Mentre rimaniamo del tutto sprovvisti di una visione organica del problema siamo lieti di segnarci un cuore sul viso una volta all’anno. Un altro modo di raccontare è possibile e dovremmo iniziare a pretenderlo.

Durante i mondiali del 2014 fece discutere un breve spot di un’agenzia britannica che mostrava una donna sul divano di casa intenta a guardare una partita di calcio. La fede al suo anulare indicava che era sposata, mentre il trasporto con cui seguiva l’incontro faceva capire che il suo esito le stava molto a cuore. L’arbitro fischiava la fine, la donna si irrigidiva in una smorfia di paura e atterrita spegneva la televisione. Non si capiva cosa succedesse, non si vedeva altro se non il suo volto, eppure si restava sopraffatti dal suo terrore. Si stava col fiato sospeso finché non arrivava una scritta. “Nessuno più delle donne vuole che l’Inghilterra vinca. La violenza domestica aumenta del 38% quando la nazionale viene eliminata dalla Coppa del Mondo”. Al di là dello studio, questa narrazione funziona perché ha alla base un’idea chiara e potente: uno dei drammi della violenza di genere, infatti, sta proprio nella sua banale quotidianità e nel suo scoppiare all’improvviso per futili motivi. Lo spot non si limita a condannare in maniera vaga il reato, ma ci dice che gli uomini e i mariti inglesi hanno un grande problema a gestire la rabbia quando la loro squadra perde una partita. Molti di loro una volta a casa si sfogano picchiando le mogli. Per questo la donna è preoccupata, sa cosa la aspetta. Semplice, concreto, inquietante. 

Anche l’Australia dovrebbe essere un modello da seguire. Nel 2016 il Dipartimento dei Servizi Sociali del governo ha lanciato insieme all’agenzia BMF la campagna Stop It At The Start, iniziativa volta a sensibilizzare i cittadini sulla violenza di genere e a riconoscerne le stratificate origini culturali. Il video della campagna più visto su YouTube rende bene l’idea dell’enorme scarto fra una comunicazione consapevole e la nostra. Tralasciando l’eccelsa qualità di ripresa – che in Italia, nonostante i tanti tecnici di qualità rimane inspiegabilmente un miraggio per progetti del genere – lo spot mostra come qualsiasi adulto aggressore sia stato prima di tutto un bambino cresciuto in un ambiente tossico e sessista.

Le responsabilità, infatti, non sono mai esclusivamente individuali, così come non esistono mostri, ma uomini educati fin dall’infanzia alla mancanza di rispetto e alla sopraffazione dell’altro. Una madre che insegna alla propria figlia che quando un ragazzo la spinge significa che prova interesse per lei fa lo stesso danno di un padre che dice al figlio maschio di non fare la femminuccia. Possono sembrare dettagli ma sono invece la sostanza stessa del nostro vivere, i punti cardinali che orientano la nostra identità nel mondo. Il video, in meno di un minuto, riesce a mostrare in modo eloquente come la violenza di genere riguardi tutte le età e le classi, come i principi che abbiamo introiettato da piccoli si ripercuotano da adulti nei nostri rapporti con l’altro sesso, e come in fondo la violenza fisica sia solo l’ultimo mattone di una casa d’odio costruita nel tempo.

Cercare una nuova prospettiva per raccontare la violenza di genere non è ovviamente sufficiente per sconfiggere il problema, ma appare sempre più come una delle condizioni necessarie affinché lo si possa affrontare in modo efficace. Il racconto è prassi e fa parte della lotta tanto quanto le concrete iniziative parlamentari. Serve un linguaggio contemporaneo, un rovesciamento di paradigma in grado di scardinare la narrazione pietistica ed emergenziale a cui siamo abituati, in favore di un dibattito aperto e riverberante e privo di compromessi, che non tema di essere disturbante. Siamo stanchi delle musiche tristi e della retorica consolatoria che quieta i sensi di colpa, è ora di assumerci le nostre responsabilità. Noi uomini in Italia – e non solo – abbiamo un enorme problema nei confronti delle donne e della nostra educazione sentimentale, viene da lontano e riguarda tutti e tutte. Non basta ripeterlo, abbiamo bisogno di rappresentarlo in modo complesso e trasversale per compiere un passo avanti decisivo. Per farlo oltre alle buone intenzioni, serve impegno politico e il coraggio di immaginare percorsi alternativi.

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