Durante la settimana di Sanremo non esiste altro, e se esiste è in funzione dell’Ariston. Il Festival è seguito anche da chi non ha acceso la televisione in nessuna delle serate, e così si introiettano messaggi filtrati dai media e dai social. Si passa così da una faida in stile Borbone vs. Savoia, con imbarazzanti wall of text di Napoli merda che campeggiano tra i commenti, a riflessioni sociali sulla presunta inferiorità culturale del Settentrione. Tutto questo per la sfida al televoto tra Geolier da Secondigliano e Angelina Mango – tra l’altro nata a Maratea e non a Belluno. C’è chi tira in ballo il Reddito di Cittadinanza e si lancia in invettive classiste, chi è particolarmente permaloso e chi, infine, si accorge che si sta parlando “solo” di una kermesse musicale, almeno in teoria, perché in pratica è ben altro, e lo sanno tutti. Durante queste serate, c’è chi ha chiesto il cessate il fuoco a Gaza – in primis Dargen D’Amico, che ha poi dovuto aggiungere di “non voler esser politico” – e chi ha osato pronunciare l’impronunciabile, la parola che gran parte dei media in questi mesi tiene soffocata in gola: genocidio. Si tratta di Ghali, e quello che è avvenuto dopo è una tragicommedia all’italiana che descrive bene lo stato di salute del nostro Paese e della televisione pubblica.
Durante la serata finale di Sanremo Ghali ha pronunciato una frase brevissima: “Stop al genocidio”. Il giorno dopo, nel consueto salotto post Festival presieduto da Mara Venier, la Rai meloniana – in teoria televisione di Stato, in realtà sempre più organo di governo – ha reagito a modo suo, chiedendo a Venier di leggere un comunicato scritto dall’Amministratore Delegato Rai Roberto Sergio, ovvero: “L’Amministratore Delegato Roberto Sergio ha dichiarato questo: ‘Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta’”. Mara Venier, la “zia d’Italia” che conforta gli anziani, al termine della lettura ha poi voluto dire la sua a commento: “Sono le parole che ovviamente condividiamo tutti”. Dopo uno dei punti più bassi della storia della televisione pubblica, voglio fare solo una domanda a Venier – che intanto ha bloccato i commenti sulla sua pagina Instagram: “Ma tutti chi?”.
L’ambasciatore israeliano a Roma Alon Bar ha addirittura parlato di “odio diffuso dal palco di Sanremo”. Maurizio Gasparri, tra l’altro membro della commissione di Vigilanza Rai, ha chiesto all’azienda pubblica di scusarsi, aggiungendo: “La Rai non può vivere fuori dalla realtà. Rinnovo la mia solidarietà all’ambasciatore Bar e al popolo di Israele che il 7 ottobre ha subito un’aggressione paragonabile alle persecuzioni della Shoah”. Lasciando stare i paragoni pericolosi con il passato, Gasparri cita gli attacchi di Hamas che abbiamo tutti fermamente condannato. Gasparri, però, come la Rai, il governo e gran parte dell’Occidente, sembra dimenticare ciò che è avvenuto prima e, soprattutto, ciò che Netanyahu ha scatenato dopo: ovvero una pulizia etnica di portata abnorme. In circa quattro mesi sono state uccise dall’esercito israeliano circa 28mila persone palestinesi. E no, non parliamo di 28mila tagliagole di Hamas, visto che sono presenti circa 9mila donne e 12mila bambini. Giusto per fare una macabra proporzione: nel terzo millennio nessuno, in nessuna guerra, aveva mai ucciso così tanti bambini in un così breve lasso di tempo.
Personalmente ancora non mi capacito di come l’Occidente stia neanche troppo indirettamente sostenendo un governo colpevole di una pulizia etnica di tale portata. Netanyahu dai nostri media non viene dipinto come il leader populista e dispotico, che sta trascinando Israele sull’orlo di una dittatura fascista, ra che è, principalmente perché è un nostro alleato. Del governo in carica, con Meloni e Salvini che l’hanno sempre sostenuto, e soprattutto degli Stati Uniti, con repubblicani e democratici compatti nell’appoggio incondizionato a Israele, nonostante i dissidi di alcune correnti dem. A prescindere dal vincitore delle elezioni a stelle e strisce, questo sostegno non cambierà. Biden non sanzionerà Israele e Trump è l’uomo degli accordi di Abramo, di Gerusalemme riconosciuta come capitale di Israele, del fido Bibi amico da tenere stretto. Anche le altre democrazie Occidentali che consideriamo illuminate, moderne, civili, diventano complici di un gioco di omertà permettendo di perpetrare questo massacro. Abbiamo giustamente sostenuto l’Ucraina in seguito all’aberrante invasione di Putin, e mi sarei aspettato un’analoga condanna per ciò che sta avvenendo a Gaza, perché i popoli invasi e massacrati devono sempre essere sostenuti. Tutti, che siano palestinesi, ucraini o curdi. Così non è stato, e le voci di dissenso vengono silenziate e ostracizzate persino dal Servizio Pubblico.
Ghali, sempre nella trasmissione di Mara Venier, ha replicato alle accuse spiegando come la gente abbia sempre più paura di schierarsi contro la guerra, alimentando la politica del terrore, mentre bisognerebbe sostenere la pace soprattutto quando ci sono bambini di mezzo. Non di certo le parole di un sovversivo o di un antisemita. È questo il punto focale: il governo, e a quanto pare anche una fetta del centrosinistra, mette sullo stesso piano le critiche al governo israeliano a un presunto antisemitismo – se non a un sostegno ad Hamas. È una logica fuorviante, fuori dalla realtà. Ad esempio Gad Lerner e altre 53 firme hanno scritto una lettera-appello per la pace, Voci ebraiche per la pace, dove viene anche scritto: “Non siamo d’accordo con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane per cui ogni critica alle politiche di Israele è antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale”.
L’antisemitismo, che non è sinonimo di antisionismo, è un male assoluto, al pari del razzismo e del terrorismo di Hamas, o chi altro. Ma Palestina = Hamas è una formula usata da chi vuol negare gli orrori di Netanyahu – e chi lo nega è sì accostabile ai peggiori dei barbari – o che teme di criticare uno Stato soltanto per il passato nefasto che ha vissuto. Come abbiamo il diritto di provare orrore per i bambini israeliani decapitati da Hamas o dai ragazzi trucidati durante un rave, così abbiamo il diritto – e il dovere – di rimarcare lo sdegno di fronte a quello che i palestinesi stanno subendo a Gaza, che da prigione a cielo aperto è diventata a qualcosa di sempre più simile a un cimitero.
Solidarizzare con chi ha ucciso 12mila bambini è l’esasperazione della faziosità, soprattutto se viene fatto sfruttando dei propri poteri attraverso i mezzi pubblici. La Rai è sempre di più Tele-Meloni, il megafono di un governo che, non sapendo dare risposte concrete ai cittadini, usa i mezzi di comunicazione per portare avanti una propaganda sbilenca e per costruire una narrazione che non sta in piedi. Ascoltando i telegiornali Rai sembra che il Paese con Meloni sia risorto, che tutto vada sempre bene; è una sorta di Istituto Luce del terzo millennio. Soltanto che, rispetto al Ventennio, abbiamo anche altri canali per informarci. Attraverso il web possiamo scoprire tutte – o quasi tutte – le carenze del governo, possiamo ascoltare le testimonianze di chi a Gaza ci vive o che è lì per lavoro sfidando quotidianamente le bombe e i cecchini. E, soprattutto, abbiamo i numeri del massacro, quelli che, per quanto freddi possano essere, delineano il quadro di una guerra che continua a mietere vittime innocenti.
Forse non è neanche del tutto normale che per portare alla luce un dibattito del genere ci si debba affidare a Sanremo. Tra l’altro buttando tutto nello stesso calderone: il genocidio e le giacche di Amadeus, Napoli e i reggicalze di Annalisa, “Il ballo del qua qua” e l’ambasciatore israeliano. È come se quel palco fosse una centrifuga, il condensato di un intero Paese strizzato in cinque serate televisive. L’Ariston ha più risalto del Parlamento, del Quirinale, di un report di organizzazioni mondiali. In questo Paese ormai possiamo aspettarci di tutto: dopo Venier che parla “a nome di tutti” sul conflitto Israele-Palestina manca solo Lorella Cuccarini a fare una lezione sul Donbass e Pino Insegno a ricordarci il periodo d’oro della bonifica dell’Agro Pontino. Tocca forse rivisitare lo slogan. Sanremo è Sanremo dovrebbe tramutarsi in Sanremo è l’Italia, sia come collante che riunisce la popolazione davanti allo schermo, che come incubatore di polemiche assurde.
Se gli anni scorsi il problema era un bacio omosessuale, un monologo sui migranti o il trucco di Damiano dei Maneskin, oggi sono le tre paroline più innocenti e sensate possibili: “Stop al genocidio”. Intervengono la dirigenza Rai e la politica, amministratori e parlamentari, opinionisti da salotto e intellettuali. E se l’Ariston è lo specchio del Paese significa che stiamo sdoganando la censura, l’ammonimento per il libero pensiero. Se un artista avesse insinuato un qualsiasi pensiero di sostegno ad Hamas sarei stato in prima linea, indignato, a lanciargli virtualmente dei pomodori. Governo e Servizio Pubblico, invece, li hanno lanciati a Ghali per un pensiero di pace, per aver ricordato a milioni di italiani incollati allo schermo che la profezia di Boris si è avverata, siamo “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.