Poco tempo fa, lo scorso 15 luglio, ho preso parte in modo quasi casuale – mi era stato regalato un biglietto – a un evento che ha generato dozzine di migliaia di battute scritte da chi, come me, si occupa di creare “contenuti online”, in modo professionale o meno. Mi sono ritrovata seduta in prima fila allo spettacolo di Louis C.K., lo stand-up comedian statunitense più famoso degli ultimi anni, nonché il più controverso a causa del suo coinvolgimento in uno dei tanti scandali sessuali legati al mondo dello spettacolo degli Stati Uniti e al movimento #MeToo. Non mi piace esprimermi in termini totalmente autoreferenziali e circoscritti, come se qualsiasi luogo in rete fosse di diritto il mio blog di MSN dove riversare la mia incontinenza verbale, ma la risonanza che questo evento ha avuto all’interno di una specifica bolla – quella dei famosi “addetti ai lavori”, che in questo caso sarebbero persone che vivono internet non solo come luogo di svago ma anche come ambiente professionale – non mi ha lasciata indifferente. Non c’è molto di interessante da ascoltare, per chi non fa parte di un certo giro, nelle analisi antropologiche di chi ha preso parte a un evento – cosa ha pensato, cosa ha detto, come si è sentito, come era vestito. Del resto, io per prima non leggerei mai 10mila battute su un forum di dentisti che commentano l’ultima incredibile convention a Zurigo in cui c’erano proprio tutti. Ma è anche normale che un evento simile abbia catalizzato molta attenzione – anche se parliamo comunque di una nicchia – e che ne siano scaturite forse anche più analisi del dovuto, compresa questa. In realtà, per quanto mi riguarda, il modo più sensato per trarre qualcosa da questo evento che non sia solo un commento da condividere con un gruppo molto ristretto di persone che fanno più o meno il mio stesso lavoro credo sia osservare cosa ha generato in termini più universali, cercando di fare lo slalom tra le continue buche in cui si rischia di cadere con questo tema decisamente complesso.
Quello che ho visto, a parte il panico generale scatenato da un sacchetto che imponeva agli spettatori di isolare lo smartphone durante lo spettacolo, è stato un cortocircuito mentale tanto forte che la puzza di bruciato l’ha sentita persino chi a Milano e al Teatro Nuovo non ci ha mai messo piede, né mai lo metterà. Un’esigenza tanto affannata e smaniosa di mettere nero su bianco ogni sfumatura di quanto è successo su quel palco e sotto quel palco che tradisce un aspetto molto interessante del dibattito di questi ultimi due anni in cui la questione delle molestie e dei personaggi coinvolti è diventata centrale: siamo tutti in grado di dire la nostra sulla questione in modo razionale e distaccato fino al punto in cui questa non tocca qualcuno che ci sta vicino. Negli ultimi due anni, infatti, ci siamo ritrovati a dover fare i conti con una realtà, ovvero che alcuni degli artisti che avevamo seguito per anni non sempre si erano comportati in modo del tutto corretto in situazioni di promiscuità. Questa baraonda di racconti postumi, denunce e denudificamenti di re che riposavano tranquilli e sicuri sui loro troni, ha prodotto reazioni molteplici, tra chi ha appoggiato a spada tratta qualsiasi sfumatura del movimento, chi ne ha preso le dovute distanze e chi invece ha preferito barricarsi dietro un muro di negazionismo oltranzista. La verità, per quanto mi riguarda, è che non è affatto facile avere un’opinione sempre definita ed esaustiva su qualsiasi aspetto di questa realtà per una serie di motivi, a partire dal fatto che è diventata di dominio pubblico in un ambiente preciso, quello del mondo dello spettacolo statunitense.
Nel caso di Louis C.K., che per chi non avesse idea di chi sia si potrebbe definire un po’ come l’Elvis Presley della stand-up statunitense, la questione si è fatta particolarmente difficile da gestire perché, se da un lato il fan medio del comico si riconosce nei valori progressisti di movimenti come il #MeToo, dall’altro Louie C.K. ha sbattuto in faccia a tutti una verità angosciante. Il comedian famoso per quel modo di pensare e di raccontarci gli Stati Uniti in tutte le loro contraddizioni, grazie a quella sua grande capacità di rivoltare le tasche dell’etica comune – celeberrimo il suo pezzo “Of course… but maybe” – e di riversare sul palco disagi esistenziali anche piuttosto profondi, ha in questi anni lasciato indizi della sua perversione, la sua “thing” come l’ha chiamata durante lo spettacolo, e tutti c’eravamo coperti gli occhi dando per scontato che si trattasse sempre e solo di finzione. Nel momento in cui è venuto fuori che sì, in effetti Louis C.K. aveva avuto degli atteggiamenti molesti – proprio come quelli descritti da lui stesso nei suoi monologhi – nei confronti di alcune sue colleghe, chiedendo di potersi masturbare in loro presenza (cosa peraltro confermata da una sua lettera di scuse postume), è crollata la terra sotto ai piedi di un bel po’ di fan. Come è possibile che lui, il mio comico preferito, il mio amico immaginario di YouTube che mi fa ridere come nessuno, quella persona che sembra così relatable e allo stesso tempo empatica, abbia fatto una cosa del genere? Ma soprattutto, come mi devo comportare io da fan sapendo che il mio mito ha fatto anche cose brutte nella sua vita?
Nella narrazione di tutto ciò che ruota attorno al #MeToo, al di là delle sue manifestazioni più pure che coinvolgono situazioni di abuso di potere e di atti di prevaricazione maschile imperdonabili, come detto poco sopra, c’è un elemento fondamentale, ovvero Hollywood. Se nelle vene degli statunitensi scorre lo spettacolo, noi europei – che non siamo da meno ma lo viviamo in modo diverso, con meno Transformers e più cineforum – siamo tutti ben lieti di sederci in prima fila con un bidone di pop-corn a osservare le luci della ribalta. Tutto ciò determina in modo inevitabile la presenza di una sovrastruttura narrativa che si aggiunge alla natura dei fatti, già di per sé piuttosto complessa: se da un lato esiste un’esigenza concreta di fare in modo che alle soglie del 2020 in nessun ambiente di lavoro si verifichino abusi di potere perpetrati attraverso violenze sessuali di vario genere, dall’altro si dovrebbe anche tenere conto del fatto che la complessità di alcune situazioni che necessitano l’intervento di forze super partes – come quelle giuridiche – non è materiale per spettacolo e intrattenimento popolare. Tuttavia, in questa ondata che ha travolto tanti uomini e non solo, bisogna avere presente che i termini coinvolti sono tre, e non soltanto i due elementi protagonisti, ovvero vittime e carnefici. C’è anche un pubblico, infatti, che ascolta, giudica, si fa un’idea, la cambia, fa il tifo, si arrabbia, abbandona vecchi miti o continua ad accettarli così come sono. E questo stesso pubblico – in un certo senso, visto che sarebbe ingenuo non considerare anche tutte le possibili sottotrame di giochi di potere in un business così grosso – è anche il fattore che determina la sentenza finale di un giudizio popolare, laddove non esiste un giudizio legale.
Il pubblico che assiste alla caduta di un personaggio tanto amato e osannato, dunque, non può che polarizzarsi per assumere quella forma tanto cara all’essere umano che ricorda gli spalti di uno stadio e la coscienza civica di un ultrà di una squadra di serie C con un fumogeno in mano. Un tema che in qualche modo sta al centro di un altro spettacolo che vede come protagonista un comico di ritorno dall’inferno della caduta, Aziz Ansari. Si può dire che lui sia atterrato sul morbido, anche perché la vicenda che lo ha coinvolto non è del tutto paragonabile a quella di personaggi che hanno letteralmente violentato o ricattato sessualmente donne e uomini. Ansari, in concomitanza con Louis C.K. che gira l’Europa in esilio dalla sua terra natia, ha invece rilasciato uno spettacolo nuovo su Netflix che si chiama Right Now in cui in sostanza chiede scusa per ciò che ha fatto ma soprattutto condivide con noi che lo guardiamo il senso di vuoto e di “ephemerality” con cui ha imparato a convivere dopo aver rischiato di perdere tutto. Ansari, che il #MeToo l’ha preso di striscio ma rischiava di rimanerci secco, mette così sul palco una questione principale di tutta questa storia, forse in modo involontario: qual è la vera proporzione tra senso di colpa per aver commesso azioni sbagliate e la paura di perdere tutto quello che si è costruito? Quanto sono sincere, dunque, le scuse di chi chiede perdono sapendo che non ha altro modo per rimanere in piedi se non cospargendosi il capo di cenere?
Il nodo centrale del cortocircuito è dunque come dobbiamo comportarci nei confronti di chi ha sbagliato, una domanda tragica che siamo portati a farci nel momento in cui ci rendiamo conto che chi è bravo non è necessariamente anche “buono” – o che forse proprio questa concezione di “bontà” manicheista e dalle forti tinte anglosassoni potrebbe non essere del tutto universale. La nostra responsabilità di pubblico sta proprio nel determinare con un termometro invisibile quale dovrà essere il destino dei colpevoli quando saremo chiamati a comprare un biglietto per uno spettacolo di un comico che si è masturbato di fronte a delle donne – in modo consensuale, ma anche connotato dalla sua posizione di potere. Ma le sfumature non sono poche, e c’è differenza tra un Harvey Weinstein e un Aziz Ansari, c’è differenza tra ciò che è una violenza e ciò che è semplicemente una brutta esperienza, ovvero una presenza di contraddittorio necessaria nella vita di chiunque non creda di essere nato in una sorta di universo Disney in cui bene e male sono raffigurati da animali antropomorfi che ti spiegano in modo didascalico – seppur molto bello – cosa si fa e cosa non si fa. Louis C.K. ha sbagliato a comportarsi come si è comportato, Aziz Ansari avrebbe potuto essere più empatico nei confronti della sua partner occasionale, ma il punto è anche un altro. Noi, che stiamo sotto il palco e non sopra, che possiamo decidere se interrompere il nostro rapporto platonico con un artista e decretare la sua morte civile o prendere atto del fatto che sì, nemmeno il mio comico preferito è un eroe, dobbiamo capire cosa fare. Nemmeno Albus Silente, incarnazione di saggezza senile e affidabilità, ha resistito alla tentazione di essere cattivo e ha sperimentato la sua magia sulla sorella disabile. Nessuno, insomma, è un eroe, e nessuno è una vittima se viene scaraventato giù dall’Olimpo del successo: è una banalità ma a conti fatti siamo solo esseri umani, anche se guadagniamo milioni di dollari a parlare con un microfono in mano.
Piuttosto che arrovellarsi sulla santificazione di un martire del presente o decidere quale pena corporale infliggergli per fare sì che espii le sue colpe – colpe tra l’altro in molti casi osservate con quell’orrido filtro di morbosità che applichiamo a qualsiasi racconto includa personaggi famosi e scandali sessuali – potremmo semplicemente accettare la sua fallibilità, nonché la sua umanità. Non credo che un sistema punitivo sia la soluzione a tutti i mali del mondo, anzi, credo che generi invece un meccanismo infantile, come quello del mea culpa sbandierato o dell’ipocrisia di chi appoggia qualcosa in cui non crede giusto per saltare sul carrozzone più comodo. Chiedere scusa è giusto, ma anche concedere seconde possibilità, riflettere su un principio di riabilitazione piuttosto che di esilio, proibizione, pena di morte in contumacia. Le persone che hanno commesso crimini ci sono, ci saranno per sempre, e forse lo saremo anche noi prima o poi: rinchiuderle in un armadio e buttare via la chiave non elimina il problema, semplicemente lo nasconde. Per questo credo che sia giusto pensare la questione del #MeToo anche in termini di reintegrazione – nei casi in cui non ci siano pene da scontare, ovviamente – piuttosto che di rimozione forzata, perché la polvere sotto al tappeto prima o poi viene fuori. Non credo che esistano mostri né santi, altrimenti sarei stata una persona religiosa, così come non credo che un comico con precedenti come quelli di Louis C.K. non abbia diritto a continuare a fare il suo lavoro, che include anche generare le reazioni contrastanti e confuse nel suo pubblico. Nel frattempo, se negli ultimi due anni abbiamo imparato che ad azioni scorrette corrispondono conseguenze anche drastiche, confido in un ricambio generazionale inevitabile per cui nessuna donna dovrà più sentirsi in dovere di guardare un uomo poco avvenente di quarant’anni masturbarsi in un ufficio solo perché lo percepisce come più potente, ma solo se lo vive come qualcosa di piacevole anche per lei.