Uno dei casi principali di revisionismo storico italiano riguarda il nostro colonialismo, ancora oggi avvolto da nebbie e falsi miti e collegato a credenze che hanno ben poca attinenza con la realtà. I danni commessi dagli italiani in Africa sono da sempre stati soffocati dalle scorie della propaganda fascista, per cui ancora oggi prevale la narrazione assurda di un colonialismo virtuoso – “abbiamo costruito ponti e strade” – e vengono omessi i crimini, i massacri, la segregazione razziale, il depauperamento e le vessazioni subite dalle popolazioni locali. Non c’è mai stata una Norimberga d’Africa – come dimostrano i monumenti dedicati a criminali di guerra – e l’unico antidoto all’oblio è la memoria. Questa è dunque la storia dei disastri italiani in Etiopia, quelli per cui non è ancora stata fatta giustizia.
Verso la fine dell’Ottocento le principali potenze europee intrapresero le prime campagne di colonizzazione in Africa. La Conferenza di Berlino, svolta nel 1884 su insistenza del Cancelliere tedesco Otto von Bismarck, rappresentò lo spartiacque per regolare il commercio in Africa e, di fatto, spalancare le porte all’espansionismo per ragioni economiche e di prestigio internazionale. Il Regno d’Italia raccolse le briciole, schiacciato dal predominio tedesco, francese e britannico. Riuscì a ottenere il controllo di Somalia, Eritrea e di alcune colonie in terra libica, come Cirenaica e Tripolitania – tutti territori meno ricchi rispetto a quelli conquistati dai rivali europei. Il primo tentativo italiano di penetrare in Etiopia risale alla guerra d’Abissinia, che segnò la prima sconfitta di un esercito europeo contro le truppe locali. Le forze italiane vennero infatti spazzate via nella battaglia di Adua, nel 1896, contro l’esercito del negus Menelik II. La sconfitta fu così cocente da avere ripercussioni sull’immagine italiana a livello militare e segnò un’iniziale resa sulle mire espansionistiche nel Corno d’Africa. Poi arrivò il fascismo con la sua prosopopea gaglioffa, quella che prevedeva di vendicare la battaglia di Adua e di costruire un impero partendo dalla conquista dell’Etiopia. Cominciò dunque un’altra campagna colonialista italiana in Africa, ancora più disastrosa.
La politica del fascismo è sempre stata più muscolare che cerebrale, e così l’intera propaganda legata alle conquiste in Africa si è sempre incentrata sull’immagine di un impero da costruire mostrando la propria forza e imponendo il proprio dominio. L’obiettivo non era soltanto conquistare l’Etiopia, ma costringere la popolazione locale a inchinarsi allo strapotere italiano. Non a caso gli italiani furono preparati alla guerra attraverso iniziative dell’allora ministero delle Colonie, che spingevano su argomenti come la necessità delle “razze superiori” di espandersi, e il regime fece pubblicare studi atti a dimostrare “l’inferiorità mentale dei negri”. Inoltre, Mussolini vedeva nella conquista dell’Etiopia un’occasione per aumentare il proprio prestigio in Europa, in un periodo in cui gli inglesi e i francesi avevano già ottenuto diversi territori in Africa e il potere di Hitler aumentava giorno dopo giorno. Si comprò così il popolo con la promessa di terra e lavoro per milioni di italiani, e fece circolare voci riguardo ricchezze di oro e petrolio per convincere le persone ad abbracciare l’imminente guerra. In realtà l’Etiopia era un Paese estremamente povero, le zone africane più ricche erano già state conquistate dagli altri stati europei: gli italiani però credettero al Duce.
Nonostante il monito di Papa Pio XI, che parlò della possibile azione in Etiopia definendola “una guerra ingiusta, indicibilmente orribile”, l’Italia iniziò le sue operazioni nel 1935. Mussolini non badò a spese e raccolse il più alto numero possibile di soldati e di armi. Dapprima mise al comando il gerarca fascista Emilio De Bono, che si ritrovò però un esercito disorganizzato a dover assecondare tutte le richieste del Duce, che pretendeva una conquista rapida e feroce. Inoltre l’inizio delle ostilità causò la reazione della Società delle Nazioni, organizzazione antesignana dell’Onu, che il 6 ottobre 1935 condannò l’Italia e le inflisse delle sanzioni economiche, per avere attaccato un altro Stato membro, cosa che andava contro i regolamenti stipulati dalle nazioni. Per tamponare le perdite economiche dovute alle sanzioni e finanziare la guerra, il fascismo diede vita allora a una campagna chiamata “Oro alla Patria”. Attraverso l’appoggio di personaggi famosi legati al regime e persino di vescovi e cardinali, venne chiesto agli italiani di donare le proprie fedi nuziali in oro per una “giusta causa”. Era anche un atto simbolico, poiché veniva spiegato che il popolo in tal modo contraeva un secondo matrimonio: quello con il fascismo. Non bastò: le smisurate spese per la campagna etiope, unite alle sanzioni internazionali, nel biennio 1935-1936 fecero schizzare l’inflazione. Mussolini però non cambiò idea e rafforzò le truppe italiane, decidendo inoltre di sostituire De Bono con il maresciallo Pietro Badoglio. L’esercito italiano era nettamente più attrezzato rispetto a quello etiope, che invece disponeva di armi antiquate e scarsi mezzi, e dunque il 5 maggio del 1936 le truppe di Badoglio entrarono facilmente ad Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini annunciò la nascita dell’Impero italiano di Etiopia.
Per ottenere questo risultato, e per combattere negli anni successivi le controffensive dei ribelli, Mussolini diede ordine di usare armi chimiche, come ad esempio bombe all’iprite, un gas letale. Il più importante storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, nei decenni successivi denunciò più volte l’uso di queste armi da parte del fascismo. Lo fece in numerosi scritti, tra cui l’esplicito Italiani, brava gente?. Ma per tornare al revisionismo storico, nel 1995, sulle pagine del Corriere della Sera, intervenne sulla questione Indro Montanelli, che quella guerra l’aveva vissuta direttamente, per smentire le insinuazioni di Del Boca. Lo accusò di aver ricostruito la vicenda usando fonti filo-etiopiche, arrivando a scrivere che non furono usati gas tossici. Non solo Del Boca rispose, sempre sul Corriere, affermando di aver usato gli archivi italiani, ma intervenne persino l’allora ministro della Difesa, Domenico Corcione, fornendo i documenti che ufficializzavano l’uso delle armi chimiche. Montanelli fu costretto così ad ammettere di essere in torto.
Il lavoro di storici come Del Boca ci permette adesso di rimettere in prospettiva non soltanto la guerra di conquista in Etiopia, ma anche i successivi anni di colonizzazione. Nel 1937 il generale Rodolfo Graziani fu nominato governatore della colonia, e appena insediato scampò a un attentato della resistenza etiope. Come risposta, Graziani ordinò di saccheggiare la capitale Addis Abeba. Gli etiopi ricordano ancora quella violenza e la celebrano ogni anno con una ricorrenza chiamata Yekatit 12. Non possono dimenticarla perché durante la rappresaglia vennero uccisi tra i 3 e i 6mila etiopi, oltre a subire furti e violenze di ogni tipo. Nei mesi successivi Graziani diede ordine di dare la caccia a qualsiasi individuo considerato “sospetto”. Altre migliaia di persone vennero così imprigionate senza processo e fucilate. Graziani temeva soprattutto il ruolo del clero copto etiope e la sua influenza nelle insurrezioni locali. Diede così ordine di compiere uno dei massacri più brutali della presenza italiana in Etiopia, quello di Debre Libanos. Il convento della cittadina venne circondato dalle truppe italiane che entrarono e, in poche ore, giustiziarono sommariamente 297 monaci e 23 laici. Le ricostruzioni successive parlano però di migliaia di vittime, tutte innocenti. Nel comune laziale di Affile, però, è stato inaugurato nel 2012 un sacrario dedicato a Rodolfo Graziani, definito dal sindaco Ercole Viri “un esempio per i giovani”. Come possa essere “un esempio” un criminale di guerra che ha causato migliaia di morti, non è dato sapersi. Viri è poi stato condannato a otto mesi di reclusione, e con lui due assessori del Comune, per apologia del fascismo, ma intanto il monumento è ancora lì, con le scritte Patria e Onore in bella vista.
Tornando all’Etiopia, oltre alla violenza dei generali e ai crimini bellici, la vergogna si cela anche nel modo in cui gli italiani si sono insediati in quelle terre e nel razzismo che da abitudine è diventato legge. Inizialmente il fenomeno più noto riguardava il madamato e il ruolo sessuale nelle conquiste italiane. I soldati e i coloni avevano la prospettiva di ottenere facilmente favori sessuali da parte di donne (spesso bambine) africane, e l’attualità ci riporta al caso Montanelli. La canzone “Faccetta nera” è un esempio di questi riti brutali che erano all’ordine del giorno. Poi qualcosa cambiò. Mussolini iniziò a temere la presenza dei “meticci” e l’espansione di una razza intermedia tra coloni italiani e popolazione locale. Vennero così vietate le unioni miste, inaugurando una vera e propria apartheid che sarebbe poi sfociata nelle leggi razziali in Italia. Mussolini non voleva “inquinare la razza”. L’idea della supremazia del popolo bianco comportò una politica di oppressione e disuguaglianza, dove gli indigeni venivano sfruttati per i lavori più degradanti, mentre agli italiani venivano riservati i ruoli più prestigiosi. Inoltre, i quartieri vennero divisi per etnie, nelle scuole gli indigeni non potevano stare nelle stesse aule degli italiani e venivano impartiti diversi livelli di istruzione; persino la polizia locale venne limitata, impedendo di agire sui bianchi. Il fascismo aveva di fatto instaurato una forma di schiavitù.
Il dominio italiano in Etiopia terminò nel 1941, in seguito all’intervento dell’esercito britannico, nel pieno della seconda guerra mondiale. I crimini degli italiani restano tutt’oggi impuniti. Nel 1948 l’Etiopia chiese all’ONU di processare alcuni dei ritenuti criminali di guerra, ma inizialmente non ottenne risposta. Fece dunque un’ulteriore richiesta, limitando la lista a due soli nomi: Badoglio e Graziani. Gli equilibri interni post guerra erano fragili, e gli altri stati non se la sentirono di colpire ulteriormente l’Italia; lasciarono dunque al nostro Paese la possibilità di scegliere come e se processare i gli italiani considerati autori di crimini di guerra. L’Italia, come è noto, non fece nulla. Badoglio morì serenamente nel 1956 in un paese, Grazzano, che dal 1938 si chiama Grazzano Badoglio. Graziani non venne condannato per i massacri compiuti in Etiopia, ma per il suo ruolo nella Repubblica Sociale Italiana, ovvero ministro della Difesa: il tribunale militare lo condannò a 19 anni di reclusione, ma dopo soli quattro mesi ottenne la libertà. Nel 1953 divenne presidente onorario del Movimento Sociale Italiano. Morì anche lui nella sua casa, da uomo libero.
L’eredità del nostro colonialismo è una scia di razzismo, stragi e sfruttamento. I nostalgici di oggi provano a snaturare i tratti di quello che fu un impero del terrore, e lo fanno attraverso la mistificazione e il revisionismo. L’unico, e potentissimo, strumento che abbiamo contro tutto questo è mantenere viva la memoria, non certo quella tramandata dai loro offensivi monumenti.