Sui libri di storia si studia che, con la concessione dell’indipendenza da parte delle potenze europee alle ultime colonie, l’epoca del dominio si è conclusa tra gli anni Quaranta e i Sessanta, ma in pratica non è mai finita: prima con la dipendenza economica (ma talvolta anche politica) di tante ex colonie dalle potenze dominanti e l’affermazione dell’imperialismo statunitense, poi con una nuova forma di neocolonialismo mascherata da collaborazione commerciale. Il colonialismo ha semplicemente assunto altre forme. Già alla Conferenza di Bandung, in Indonesia, che nell’aprile 1955 raccolse i Paesi non allineati durante la Guerra Fredda, l’allora presidente indonesiano Ahmed Sukarno sostenne che il colonialismo avesse “anche un vestito moderno, nella forma del controllo economico, del controllo intellettuale […] esercitati da parte di una piccola comunità estranea all’interno di una nazione”. Nel moderno colonialismo, il Paese dominante non intende – come avveniva per mezzo delle armi tra il Diciannovesimo e Ventesimo secolo – dominare il Paese “sottoposto”, ma quest’ultimo dipende da lui sul piano economico quanto basta da non avere quasi altra scelta che rispettare il suo volere; la dipendenza economica produce dunque un’indiretta dominazione politica.
Un intervento militare è una chiara imposizione di una nazione su un’altra, ma la mentalità che c’era alla base delle colonie sembra essere ancora diffusa. Basti pensare che l’estate scorsa Donald Trump avrebbe voluto acquistare la Groenlandia come un bene di scambio qualsiasi, replicando la transazione del 1867 con la quale gli Stati Uniti acquisirono l’allora russa Alaska, senza consultare né avvertire gli abitanti. Ci aveva già provato Harry Truman nel 1946, quando il Paese era ancora a tutti gli effetti una colonia, come è stato fino al 1953, abitata per lo più da Inuit afflitti da problemi sociali di alcolismo, violenza e disoccupazione, oltre a tassi di suicidio più alti al mondo. Le colonie erano merce. “La Groenlandia è groenlandese”, ha sottolineato la Prima ministra della Danimarca rispondendo alla folle proposta di Trump. In realtà non lo è del tutto: gli affari che i politici locali concludono sul territorio con aziende straniere finiscono per far passare in secondo piano la garanzia di sovranità, autodeterminazione e salute delle popolazioni. Così alcuni Paesi diventano territori da sfruttare da parte delle potenze dominanti, come lo è stata, ad esempio, la Martinica per la Francia.
Una delle forme indirette di colonialismo attraverso cui questo avviene è il land grabbing, letteralmente “accaparramento di terra”, cioè una forma di esproprio tramite acquisto o affitto di terreni che, considerati inutilizzati, vengono venduti a terzi, aziende o governi di altri Paesi, senza avvertire le comunità locali che vi abitano o che li usano a tutti gli effetti, anche da anni, per coltivare il proprio cibo. L’obiettivo è sempre guadagnare di più. Questa pratica è eseguita in modo massiccio in Africa in Paesi come l’Uganda, la Tanzania, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, dove si instaurano coltivazioni intensive per produrre tabacco, biocarburante, legnami di interesse commerciale o si installano allevamenti. Gli effetti si vedono: lunghi periodi di secca, meteo imprevedibile al punto da modificare le stagioni agricole, poca pioggia e collasso delle piantagioni. O ancora in Madagascar, dove tra le altre l’italiana Tozzi Green, che produce energia rinnovabile, nel 2012 ha ottenuto l’affitto per trent’anni di oltre 6.500 ettari per coltivarvi jathropa, una pianta sconosciuta nella regione e impiegata per produrre biocarburante.
È una forma di colonialismo sottile, più difficile da identificare, che sfrutta la povertà di Paesi vittima di un passato coloniale irrisolto per offrire occasione di investimenti, senza chiarire le condizioni. Impiantando infrastrutture e offrendo denaro prende il controllo, economico prima e culturale poi, dei territori, che sfrutta fino a svuotarli. Il fenomeno esiste da molti anni, ma è cresciuto del 1000% circa dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008. La domanda di terre cresce, per effetto dell’aumento dei prezzi nei Paesi “dominanti” e della domanda di nuove forme d’energia: i settori interessati sono l’agricolo – con il paradosso che Paesi in cui si soffre la fame esportando derrate alimentari – le energie rinnovabili e i biocombustibili. La compravendita fa leva sulle necessità dei Paesi oggetto d’interesse, sul loro stato di bisogno o sull’interesse di governi poco trasparenti.
Se l’acquisto di terre può essere in principio una transazione legittima, non lo è più quando chi ci abita non viene informato della cosa, né tantomeno interpellato. Spesso intere comunità vengono allontanate, con promesse di risarcimento che vengono poi disattese e talvolta i terreni restano inutilizzati. Oltre il danno, la beffa, come sottolinea l’organizzazione Oxfam, che nell’ottobre 2011 ha chiesto alla Banca Mondiale – che finanzia molte compravendite di questo tipo – di congelare i propri investimenti nelle compravendite dei terreni agricoli, su cui non ha stabilito un tetto massimo o uno standard da seguire. La Banca non ha accettato di sospendere i propri investimenti, ma ha riconosciuto di poter svolgere un ruolo nella lotta al land grabbing, impegnandosi per migliorare i propri standard. Anche l’Unione europea è coinvolta, con il piano Eip (External Investment Plan) per incoraggiare gli investimenti in Africa, che rischia però di far maturare nuovi debiti nei Paesi in via di sviluppo, aggravarne il deficit e favorire l’insediamento delle multinazionali, senza garantire il rispetto dei diritti umani e ambientali nei Paesi interessati.
Tra le imprese agroindustriali e minerarie che si installano in Africa ci sono anche casi di evasione fiscale: se pagassero il dovuto, tanti Paesi africani non sarebbero nella situazione in cui si trovano, dato che sono così ricchi di risorse che non avrebbero bisogno di aiuto, se queste non fossero gestite male o depredate con la complicità dei governi. Secondo il report I padroni della Terra. Il land grabbing, di Focsiv – organizzazione di volontari di ispirazione cristiana – e Coldiretti, il fenomeno riguarda 71 milioni di ettari di terra fertile al mondo e oltre 1.800 contratti, tra stipulati (1.580 circa), previsti e falliti. In testa, per numero di ettari “conquistati”, gli Stati Uniti (con investimenti per oltre 13 milioni di ettari), seguiti da Malesia e Cina. A subire di più, invece, Perù, Repubblica Democratica del Congo, Ucraina, Brasile e Filippine, cui seguono diversi stati africani. L’Italia ha comprato o affittato un milione e 100mila ettari con 30 contratti in 13 Paesi; in particolare in Etiopia – a dimostrazione che i legami di epoca coloniale non sono recisi – ha contratti per 70.500 ettari: tra le aziende italiane coinvolte, la Fri-EL Green Power S.p.a. ha un contratto d’affitto per 70 anni, del valore di 2,50 euro l’ettaro. Il piano di crescita etiope è fondato sull’attrazione di investimenti stranieri e sulla creazione di partenariati pubblico-privati a scapito dei piccoli contadini. Sperando che gli investimenti creino occupazione e quindi reddito, infatti, spesso si marginalizzano le comunità rurali e i pastori e l’ambiente viene depauperato.
È una posizione ambigua quella dei Paesi occidentali: lo sottolinea Mark Langan in Neo-colonialism and the poverty of development in Africa (2017), mettendo in luce il matrimonio tra interessi aziendali e aiuti, anche quando l’obiettivo ufficiale è eliminare la fame, come nel caso della New Alliance for Food Security and Nutrition (Nafsn), che avrebbe favorito il land grabbing tramite la creazione di “corridoi agricoli”; gli agricoltori di sussistenza si sarebbero in questo modo visti spogliati delle loro terre in favore delle necessità dell’agribusiness delle aziende partner di Nafsn, tra cui alcune dell’ormai noto settore dell’olio di palma. Secondo Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, il concetto di neo-colonialismo sottolinea i potenziali impatti negativi delle forme non regolate di aiuto, commercio e investimento straniero diretto, in relazione alla riduzione della povertà e allo sviluppo dei Paesi africani. La loro sovranità talvolta è un’“indipendenza di bandiera” con interferenze politiche e controllo economico; le stesse élite locali possono essere coinvolte con corruzione, nepotismo o violazione dei diritti. Con questo concetto si riconoscono e contestualizzano i casi di malgoverno, valutando se donatori esterni e aziende facilitano (o incoraggiano) queste azioni per mantenere i loro accordi lucrativi.
Ma le conseguenze del land grabbing si riversano anche sull’Europa, poiché questo è sempre di più uno dei motivi delle migrazioni: non solo direttamente – costringendo in diversi casi le popolazioni a spostarsi – ma soprattutto in modo indiretto, perché il metodo intensivo utilizzato nelle colture ospiti è disastroso per il suolo, che è portato all’impoverimento e all’infertilità. Infatti, oltre a creare rifugiati, il land grabbing fa sì che intere foreste vengano tagliate per far spazio alle coltivazioni aggressive, prosciugando le già scarse riserve acquifere e impattando sulla morfologia dei territori. Questa pratica aggrava così il cambiamento climatico, non solo tramite lo sfruttamento sconsiderato dei terreni e la ricerca di terre rare, minerali o petrolio; ma anche perché allontanando le comunità locali che sfruttavano la terra in modo più rispettoso si mina il loro ruolo di difesa del territorio, in particolare delle foreste. Secondo il report della Climate Lands Ambition and Rights Alliance (CLARA), infatti, assicurare i diritti sulla terra delle comunità è una giusta, effettiva ed efficiente azione per il clima da intraprendere per proteggere le foreste. È un doppio disastro quello causato dal land grabbing: da un lato l’alienazione del diritto sulla terra delle popolazioni locali e dall’altro, con il taglio sconsiderato della vegetazione, il fallimento della lotta al climate change. Per garantire i diritti umani e ambientali e dare una seria risposta all’emergenza climatica, non limitata alla raccolta differenziata in casa nostra, ma che guardi anche al di fuori del nostro giardino, bisogna opporsi al nuovo colonialismo là dove il colonialismo non ha mai smesso di esserci: in primo luogo in Africa e America meridionale.