Il 17 luglio è diventato legge, dopo l’approvazione al Senato del testo blindato, il cosiddetto Codice rosso “contro la violenza domestica e di genere” fortemente voluto dal governo e in particolare dalla ministra per la Pubblica Amministrazione e senatrice della Lega Giulia Bongiorno. La legge prende il nome dall’obbligo per le procure italiane di ascoltare chi sporge denuncia per violenza sessuale o familiare entro tre giorni dalla iscrizione del procedimento. In questo modo, secondo la ministra Bongiorno, la violenza contro le donne verrebbe finalmente promossa da “reato di serie B a reato di serie A”. La tempestività nell’audizione significherebbe infatti trattare ogni denuncia di violenza come un “codice rosso”, simbolo della massima urgenza. Tuttavia, durante la prima discussione alla Camera la scorsa primavera, fu proprio Bongiorno a farsi scappare la ragione di fondo che ispira la normativa: “Appurare immediatamente se si ha a che fare con un’isterica o con una donna in pericolo di vita, e in tal caso salvarla”, aveva scritto in un tweet poi cancellato. Come ha denunciato l’avvocata della rete dei centri antiviolenza D.i.Re. Elena Biaggioni, “È una norma che tende una trappola alle donne che subiscono violenza”. E che rischia di favorire gli uomini violenti.
Per Biaggioni, “Se tutto è un codice rosso, infatti, vuol dire che niente è un codice rosso. Al Pronto Soccorso, per capire la gravità di un caso rispetto a un altro intervengono medici competenti e destinati a questo. Nel caso di questa legge, che ignora completamente il ruolo dei Centri antiviolenza e la collaborazione storica tra noi e le procure, non sappiamo né chi, né come, sarà deputato a valutare in tutta fretta l’effettiva gravità dei casi denunciati.” La nuova legge, infatti, prevede l’obbligo per il Pubblico Ministero di procedere entro tre giorni dalla iscrizione della notizia di reato all’audizione della persona offesa e di chi ha presentato denuncia o querela, compito che fino a ora era delegato per prassi alla polizia giudiziaria. Il rischio derivante da questa previsione, sia per i termini ristretti sia per l’impegno richiesto ai magistrati inquirenti che, per ragioni di disponibilità, potrebbero non essere sempre quelli dei dipartimenti specializzati degli Uffici della Procura della Repubblica, è che le donne vittime di violenza abbiano a che fare con personale non del tutto preparato ad assistirle.
Il Codice, pur introducendo una lunga serie di nuovi reati, tra cui il quello di revenge porn, di costrizione al matrimonio e il reato cosiddetto “reato di sfregio”, rischia di rivelarsi dannoso, diventando il pretesto per dividere le donne nelle due categorie di vittime inermi o bugiarde. “È così che ci trattano sempre”, dice Biaggioni. “O siamo cadaveri in un obitorio, oppure non ci credono. Immaginiamo una situazione in cui una lite tra marito e moglie sfoci in una spinta contro un muro. Magari i vicini chiamano i carabinieri, la donna, spaventata e ferita, sporge denuncia sulla scorta della paura vissuta in quel momento pericoloso. Dopo tre giorni, la procura la convoca. Ma alla lite può essere seguita, è quasi sempre così, una relativa quiete in cui il marito si è addolcito. La donna, ancora sotto shock, è confusa, si sente in colpa, dice a se stessa che è stato solo un episodio e non succederà più. È così che accade nella maggior parte dei casi: la violenza domestica è subdola, è legata a doppio filo con la manipolazione”. Se questa donna, ascoltata dal Pubblico mInistero, decide di minimizzare l’accaduto e il suo comportamento non viene interpretato correttamente o comunque non viene esaminato sulla base di un periodo di osservazione più lungo, la denuncia rischia di risolversi in un nulla di fatto, in grado di compromettere la credibilità della vittima, anche se sta correndo un pericolo reale.
Questa distorsione può avere conseguenze ad ampio raggio: per esempio può trasformarsi in un’arma contro le donne in tutti quei casi in cui in tribunale i padri fanno leva sulla infondata “alienazione parentale” (che Giulia Bongiorno vorrebbe far diventare un reato) per ottenere la custodia dei figli. Non è un caso che il senatore Pillon si sia distinto tra i più accesi sostenitori del Codice rosso: il 23 luglio la Commissione giustizia del Senato ha ripreso la discussione sul suo disegno di legge e, se sul piano dell’immagine il Codice rosso cancella le accuse di sessismo rivolte al governo, nella sostanza rischia di rimettere la famiglia patriarcale cosiddetta “tradizionale” alla base della società.
In Italia la violenza sulle donne in ambito familiare è un fenomeno endemico, con quasi 3 milioni le donne che hanno dichiarato di aver subito violenza dal partner o ex partner. Secondo l’Istat, “la maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%)”. Eppure, quando i giornali raccontano i femminicidi, ribaltano la realtà evitando di sottolineare che la violenza maschile è la causa della rottura nella gran parte dei casi. La narrazione dominante vuole che sia la fine della relazione a scatenare il raptus omicida, perpetrando un sistema culturale che colpevolizza le donne per la violenza subita, e solleva gli uomini violenti dalle loro responsabilità. Questa mentalità pesa sulla coscienza delle donne, che mantengono spesso il silenzio sulle violenze, nel timore che la denuncia finisca per danneggiarle. Molti episodi di cronaca danno ragione alle loro paure: la vicenda di Deborah Ballesio, uccisa a Savona dal marito violento e ossessivo che aveva denunciato 19 volte, è solo l’ultima in ordine di tempo. In questo senso il Codice rosso introduce almeno due novità positive, secondo l’avvocata Biaggioni: “finalmente diventa reato la violazione dell’ordine di allontanamento. E sono previsti, sulla carta, trattamenti psicologici in carcere per i maltrattanti e i violenti. Un’ottima intenzione che però tale rimarrà, visto che non sono previste coperture finanziarie”.
In generale, l’impressione è che il Codice Rosso parta proprio da queste ottime intenzioni, ma fallisca nel fornire strumenti concreti di sostegno alle donne nel momento in cui decidono di riappropriarsi della propria vita: è impensabile risolvere il grave e complesso problema della violenza di genere adottando solo una prospettiva securitaria. Pene più severe e processi più rapidi sono palliativi di fronte alle difficoltà che una donna deve affrontare nel percorso di uscita dalla violenza. In questo, i centri antiviolenza offrono uno strumento prezioso, ma non possono sostituirsi alle istituzioni. Quello che possono fare è offrire un know how: quando si rivolgono a una di queste strutture le donne vengono accompagnate nel racconto della propria esperienza e protette immediatamente sottraendole ai luoghi in cui si sentono o sono in pericolo, e sostenute in un percorso di assistenza legale, psicologica, sanitaria, di confronto con altre donne e di solidarietà. L’obiettivo è che possano uscire dalla condizione di vittime, riconquistare la propria dignità e affrontare con coraggio gli uomini violenti che vorrebbero annientarle.