Il 20 marzo, a San Donato Milanese, l’autista Ousseynou Sy ha dirottato un autobus con una scolaresca di circa cinquanta ragazzini delle medie a bordo, costringendo bidelli e insegnanti a legare gli alunni, cospargendo infine il mezzo di benzina per poi appiccarvi fuoco. L’uomo è stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona con l’aggravante della premeditazione e della finalità terroristica.
Nonostante la gravità dell’attentato, il dibattito pubblico e politico si è subito focalizzato sulla questione delle origini, sia dell’attentatore che degli studenti coinvolti. Ousseynou Sy è un cittadino italiano di origine senegalese, caratteristica che secondo una determinata retorica dovrebbe rappresentare un’aggravante di quanto ha fatto. Non è la prima volta che le origini di una persona che commette un grave atto criminale vengono messe sotto i riflettori, per rivolgere poi un’accusa indiretta a tutte le persone che condividono la stessa appartenenza etnica o culturale.
Dalle origini di Ousseynou Sy, si è poi passati a discutere delle origini di Samir e Rami, gli “eroi” che sono riusciti a sventare la strage, contattando le forze dell’ordine senza farsi scoprire. Samir e Rami si sono così ritrovati al centro del dibattito pubblico e politico principalmente perché sono italiani nati da genitori di origine marocchina ed egiziana. In particolare Rami è italiano de facto, ma non de iure.
Si è quindi di nuovo riaperto il dibattito sulla cittadinanza. Da un lato c’è Salvini che ha ribadito che, con il nuovo Decreto Sicurezza, Sy potrà perdere la cittadinanza italiana se le indagini confermeranno la matrice terroristica del suo crimine. Vale la pena ricordare che su questo punto è ancora in corso un dibattito sulla presunta incostituzionalità della nuova legge, in quanto secondo alcuni questa svilirebbe il concetto stesso di cittadinanza. Infatti, introdurre una cittadinanza di serie B e una di serie A – quella di coloro che sono italiani da generazioni e che non possono vedersela revocata perché commettono un reato – dal punto di vista giuridico potrebbe rappresentare una violazione del principio di eguaglianza, nonché dell’articolo 22 della Costituzione, che impedisce la revoca di tale documento per motivi politici. Dall’altro c’è Giorgia Meloni, che vede la cittadinanza come un premio e vorrebbe quindi consegnarla a Rami per l’eroismo.
In entrambe le prospettive, sia in quella di Salvini che in quella di Meloni, la cittadinanza perde il suo inalienabile significato, diventando qualcosa che si ottiene grazie alla benevolenza dell’autorità di turno come riconoscimento al cittadino straniero “più bravo”, e che si perde quando invece si commette un reato. Lo sbaglio sta proprio nel pensare che la cittadinanza sia qualcosa di “prezioso” e non il semplice riconoscimento di ciò che si è, non essendo una “concessione”, ma un diritto. Chi ha cercato in tutti i modi di contrastare la riforma sulla cittadinanza – ius soli temperato e ius culturae – che avrebbe dato la possibilità di ottenerla ai ragazzi nati o cresciuti in Italia, con genitori stranieri lavoratori e regolarmente residenti, ora ne riparla come se fosse qualcosa di eccezionale, da concedere per atti eroici. Samir e Rami erano italiani anche prima di sventare un attentato, ma evidentemente secondo alcuni la patente di italianità va data solo alle persone straordinarie. Eppure non risulta che chi è italiano per ius sanguinis abbia qualche merito particolare aldilà dell’essere nato da genitori italiani.
Come ha spiegato il conduttore afroamericano Trevor Noah durante il suo talk show in cui criticava la retorica dell’eroismo attorno al caso di Mamoudou Gassama, definito come “il migrante eroe” o lo “Spiderman” che a Parigi ha salvato un bambino che stava per cadere dal balcone, “se non avesse compiuto quell’atto eroico, non sarebbe mai stato considerato come parte integrante della società francese”. Il presidente Emmanuel Macron infatti, gli ha concesso la cittadinanza proprio in funzione del suo atto di coraggio, cadendo nella stessa retorica ipocrita che oggi propone Meloni. Questo genere di prese di posizione sembrano fare due pesi e due misure: se da un lato atti di “eroismo” non fanno giungere alla conclusione che tra gli stranieri vi siano, come tra gli italiani, persone per bene e persone meno per bene, dall’altro atti criminali come quello di Sy ci fanno cadere nelle becere generalizzazioni qualunquiste, per cui se una persona di origini senegalesi commette un crimine è perché tutti i senegalesi sono criminali.
Ne è un chiaro esempio il modo in cui il ministro Salvini ha risposto a Rami dicendo che si sarebbe dovuto far eleggere per cambiare la legge sulla cittadinanza, il cui ottenimento è stato reso ancora più complicato grazie al Decreto Sicurezza. Un segno di sfida vergognoso, sia per il ruolo istituzionale che ricopre Salvini sia per la differenza d’età tra i due. In un tweet Fratelli d’Italia è riuscito persino ad andare oltre, collegando il crimine commesso da Sy alla riforma di cittadinanza; come se nascere in Italia da genitori stranieri dovesse garantire di per sé la certezza che prima o poi verranno commessi atti criminali.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha subito definito l’attentatore in un tweet come un “senegalese con cittadinanza italiana”, mettendo in contrasto la sua origine, vista in modo negativo, con il fatto che è un cittadino italiano. Spesso è anche la stampa – con titoli di giornale clickbait e imprecisi – a giocare un ruolo cruciale nel modo in cui vengono veicolate al pubblico queste notizie. C’è una differenza fondamentale nel descrivere l’attentatore come “senegalese”, senza menzionarne né nome, né lo status di cittadino italiano da 15 anni, o definirlo come “cittadino italiano di origini senegalesi”.
Presentare correttamente quanto accaduto serve per evitare generalizzazioni insensate con persone che hanno commentato la notizia sui social tirando in ballo la “cultura senegalese”. È assurdo chiedere a tutti i senegalesi di prendere le distanze o chiedere scusa per il fallito attentato. Benché sia scontato che chiunque condannerebbe un crimine simile, a prescindere dall’origine o dal gruppo etnico, c’è un’evidente tendenza a voler criminalizzare un’etnia intera quando la persona che ne fa parte commette un reato. Pretendere che tutti gli altri senegalesi – o neri in generale – si sentano in colpa per qualcosa in cui non sono coinvolti è come pretendere che ogni uomo italiano scenda in piazza per manifestare contro il femminicidio e chiedere scusa per i mariti o ex fidanzati che uccidono le loro partner.
Anche quando la minoranza etnica messa alla gogna prende le distanze, mostrando di non essere come il criminale in questione, la notizia passa in sordina. ‘N Diaye, rappresentante della comunità senegalese della provincia di Ancona, ha registrato un video in cui si è sentito in dovere di chiedere “perdono a tutto il popolo italiano”, oltre a condannare il gesto come “ignobile”. Per quanto la sua condanna sia condivisibile, bisogna capire che l’essere portati a scusarsi per cose di cui non si è affatto colpevoli è il risultato di un clima in cui è necessario ribadire che avere il colore della pelle in comune con un criminale non significa esserlo a propria volta. Anche l’articolo 27 della Costituzione ribadisce il principio che “La responsabilità penale è personale”. Questo significa che né ‘N Diaye, né gli altri senegalesi che vivono in Italia non devono sentirsi chiamati in causa per quanto è avvenuto.
Anche il Partito Democratico è tornato a parlare della riforma. Graziano Delrio ha detto che è mancato il coraggio di portarla avanti dopo il flop del 23 dicembre del 2017, quando in Parlamento è venuto a mancare il numero legale per poterne discutere, data l’assenza di tutto il Movimento 5 Stelle, le forze di centrodestra e parte dello stesso Pd. Più che di coraggio si potrebbe parlare di un vero e proprio rifiuto ad affrontare in maniera concreta questa nuova realtà italiana che rende sempre più evidente quanto le leggi sulla cittadinanza siano obsolete. Basti pensare alla norma che prevede l’attesa fino al diciottesimo anno di età – ammesso e non concesso che la si ottenga in modo automatico anche dopo aver fatto richiesta e aver pagato – che porta a complicazioni burocratiche e limita le aspirazioni di molti giovani, privandoli spesso del diritto di voto e al lavoro.
L’idea che si fa passare è che per essere cittadino italiano bisogna sforzarsi di fare qualcosa di grande, quando i cittadini nati da genitori italiani non hanno fatto niente di eclatante. I ragazzi come Samir e Rami sono persone che nascono o crescono in Italia, vanno a scuola in Italia e parlano italiano, eppure non vengono considerati dallo Stato come i loro coetanei tutelati da un obsoleto diritto di sangue. Rami non si “merita” la cittadinanza per ciò che ha fatto ma ha pieno diritto di ottenerla in quanto italiano. E come loro ne hanno pieno diritto tutte quelle persone italiane di fatto che però si ritrovano a vivere in Italia con il permesso di soggiorno. Si tratta di oltre 800mila persone definite come “italiane di seconda generazione”, che ancora oggi si battono per vedere riconosciuto il proprio status. La cittadinanza è il riconoscimento di ciò che si è, non un premio a punti da barattare per un atto di eroismo.